3 febbraio – S.Biagio

Oggi per i catanesi è una data particolare. Nella lunga serie di eventi legati alla festa di Sant’Agata, c’è la giornata che tradizionalmente unisce liturgia e tradizione laica. Nella tarda mattina, nella chiesa di San Biagio, vicino alla sede in cui la giovane santa fu incarcerata e torturata, il Vescovo fa l’offerta della cera. A questa cerimonia sono presenti anche le autorità civili che al termine della celebrazione, verso mezzogiorno circa, fanno rientro alle loro sedi con la cosiddetta “Carrozza del Senato”.

Carrozza del Senato

Le carrozze in realtà sono due, una per Sindaco e Prefetto e l’altra per il Vescovo. Le due berline procedono in processione verso il Municipio ed il Duomo che si trovano nella stessa piazza, scortate dalle candelore.

I 12 grandi ceri votivi lignei, in cui sono scolpite scene della vita e del martirio di Sant’Agata, vengono portati a spalla da robusti devoti, affiliati alle varie congregazioni sociali che tradizionalmente rappresentano la folla dei fedeli e che danno il nome ai ceri: dei fiorai, macellai, artigiani, panettieri, ortolani, giardinieri, pescivendoli, fruttivendoli, pastai, pizzicagnoli, osti, e quelli di quartieri cittadini e del circolo sant’Agata.

Candelore

Le candelore annunciano la festa passando in processione nelle strade cittadine, da circa un mese prima, raccogliendo fondi per pagare parte delle spese legate alla festa e sono sovente precedute da bande musicali. Durante i 3 giorni di festa, dal 3 al 5 febbraio, le candelore sono sempre presenti e precedono il passaggio del feretro della Santa.

Feretro di Sant’Agata trainato dai “Sacchi”, devoti in vestito tradizionale.

La sera del 3, alle 20.00 in piazza Duomo viene normalmente eseguito un concento di musica lirica e sinfonica (Catania è la città di Bellini e mantiene una forte vocazione classica) al quale segue un imponente spettacolo di fuochi pirotecnici.

Quest’anno, a causa del Covid, nel giorno di San Biagio non ci sono le processioni di piazza, niente carrozze, niente candelore, niente concerto e niente fuochi. Tutto cancellato a causa del perdurare della pandemia che arretra molto lentamente.

Resta il fatto che oggi è giorno 3 febbraio, san Biagio. Perchè sono legato a questa data? Perché è l’onomastico di un mio caro amico col quale ho passato più di quattro anni assieme, da ragazzo. Eravamo amici inseparabili. Con Biagio andavo ovunque. C’erano volte che con lui e assieme ad altri amici decidavamo di scalare l’Etna per il solo gusto di dire che avevamo fatto un bel giretto, oppure andavamo al mare, o facevamo incursioni in centro città o nei paesini etnei, mi accompagnava in aeroporto ogni volta che dovevo andare a volare, facevamo il giro delle scuole per fermarci a parlare con le ragazze conosciute le sere prima. Mi ha fatto compagnia sin dai tempi delle superiori, assecondando ogni mio bisogno, fino a dopo il diploma quando mi ha accompagnato per i lavoretti che facevo per avere un po’ di autonomia. Lui conosceva me ed io conoscevo lui. Ci prendavamo cura l’uno dell’altro. Spesso sono stato al suo capezzale quando qualcosa non andava, cercando i migliori rimedi per farlo tornare rapidamente su di giri e lui, sempre riconoscente, mi portava con sè nei miei momenti di sconforto, quando l’unico desiderio era isolarmi da tutto e da tutti e correre velocemente lontano.

Anche quando Biagio era stanco e stremato ed iniziava a bobottare o lamentarsi con strani grugniti, mi era sufficiente chiamarlo con dolcezza e dirgli “Biagio dài, tu sei forte, puoi farcela” e ripartiva di scatto come se non fosse successo niente. Eravamo proprio una bella coppia.

Chi era Biagio? il mio motorino.

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Salvare Venezia – Racconto completo

Racconto inedito di Mauridibe — Gennaio 2021

In fondo alla pagina c’è la possibilità di scaricare il racconto in formato Pdf o di richiedere un Pdf con con dedica personalizzata, firmato dall’autore.

PROLOGO

Mi hanno contattato in ritardo, eccessivo ritardo. Io li avevo messi in guardia più di 45 anni fa che le misure che stavano adottando sarebbero state insufficienti. Erano tutti convinti che il Mose avrebbe salvato Venezia. Certo è stato utile, all’inizio. Ha evitato che l’acqua alta raggiungesse spesso piazza San Marco e devastasse monumenti, case e attività commerciali aiutando la più grande fonte di reddito della città: il turismo.

Quello che non avevano capito, all’inizio, era che stavano perdendo tempo. Le maree di 100-110 centimetri erano state una curiosità interessante, quasi un vezzo, sia per i veneziani e sia per i turisti. Per combatterle era sufficiente difendere il centro storico con semplici paratie e passerelle ed andò avanti per anni perchè le sequenze storiche di maree eccezionali si mantenevano rare e venivano benevolmente sopportate dalla popolazione.

L’alluvione del 1966 aveva fatto capire che era necessario un intervento decisivo per la salvaguardia della storica città. Negli anni ’70 vennero messi in atto interventi legislativi per sovvenzionare seri studi ambientali e cercare soluzioni compatibili con il complesso e delicato ambiente lagunare.

Quando, negli anni ‘80 le maree arrivarono a superare pericolosamente i 140 centimetri due, tre volte l’anno, i veneziani iniziarono ad avere paura e chiedere maggiore velocità alla politica per salvaguardare la parte storica della città che soffriva e stava rapidamente svuotandosi di cittadini in trasferimento sulla terraferma. Il futuro di Venezia, non solo come opera d’arte unica nel suo genere, ma come idea di città viva e da vivere stava progressivamente scomparendo.

L’agitato mare di grandi imprese edilizie aveva subodorato che sarebbe stato mosso un notevole quantitativo di denaro per salvare Venezia. Schiere di imprenditori iniziarono a fare visite frequenti ai sindaci, ai presidenti di regione e persino ai patriarchi. Ogni volta erano accompagnati da esperti veri o millantati, del settore delle maree, botanici, etologi, climatologi e decine di ingegneri. L’obiettivo era convincere che non c’era tempo da perdere e che dovevano iniziare subito le opere colossali per evitare l’inconveniente dell’acqua alta a Venezia. Il rischio era perdere turisti e con loro il fiorente settore alberghiero di lusso, della ristorazione e dell’oggettistica, compresi i vetri di Murano ed i centrini di Burano.

Anche io ero andato nel 1995 a proporre un mio progetto che fu scartato immediatamente perché ritenuto eccessivamente costoso, tecnicamente irrealizzabile e orrendo alla vista. Ero preparato ad una simile risposta e per questo non rimasi per niente scoraggiato, convinto della bontà del progetto, della sua economicità nel tempo e della sua sostenibilità ambientale. Semplicemente, la città ed il mondo non erano pronti per quel tipo di progetti e la paura dell’innovazione fece sventolare bandiere di falso interesse di protezione dell’ambiente lagunare arrivando persino a mettere in discussione le basi scientifiche su cui si basava lo studio dell’innalzamento della temperatura terrestre ed il conseguente innalzamento dei mari. Mi sforzai di spiegare, nei lunghi dibattiti che vennero organizzati in quegli anni, che le temperature sarebbero aumentate ad un ritmo due, tre volte superiore alla rosea previsione degli anni 50 e non c’era tempo da perdere con soluzioni tampone, tipo quella del Mose, che non avrebbero risolto il problema. Gli interventi dovevano essere radicali e decisivi. Nonostante le mie argomentazioni, i pareri negativi sull’impatto ambientale raccolti da tutti i progetti, Mose compreso, erano un chiaro segno che la strada per salvare Venezia, i veneziani e l’ambiente floro-faunistico, sarebbe stata lunga e tortuosa.

Nella peggiore delle tradizioni italiane, tanto più lunga e tortuosa era la strada, tanto più remunerativa sarebbe stata l’impresa per chi creava ostacoli burocratici al solo fine di rimuoverli dietro laute ricompense.

E così, dopo il lungo periodo di gestazione delle fasi progettuali, di verifiche ai fini della coesistenza con le specie animali e vegetali della laguna, dopo le proteste dei pescatori e dopo una pioggia torrenziale di euro che aveva riempito le tasche di politici, ingegneri ed esperti vari e dopo aver fatto tacere, anche con minacce, qualsiasi voce contraria, nacque il Mose. Ultimato nel 2020, venne utilizzato con grande successo subito dopo il suo completamento. C’era da affinare la parte operativa per determinare in maniera univoca chi dovesse decidere se e quando innalzare il Mose, su quali fonti di previsione basarsi e in che tempi compiere l’intera operazione. Però la bella notizia era che, dopo anni di polemiche, il Mose funzionava!

Quello che molti non sapevano era che un comitato scientifico, già da cinque anni prima di quell’evento inaugurale, stava valutando il parametro che non era stato tenuto in debita considerazione nella stesura di quasi tutti i progetti, tranne che nel mio. La temperatura della superficie terrestre stava impennandosi raggiungendo valori impensabili solo 30 anni innanzi.

Le ipotesi che circolavano a quel tempo e comunicate al popolo attraverso la divulgazione scientifica di massa, prospettavano un incremento contenuto entro 2 gradi e, per mezzo di decisive modifiche agli stili produttivi e di vita, figlie dell’accordo di Parigi, di fatto inadempiuti, veniva auspicato di rimanere vicini ai 1,5 gradi, alla fine del 2100. Che illusi!

Alcune ricerche sui ghiacciai dell’Antartide, mi avevano illuminato e mi ero tanto appassionato all’argomento che avevo messo assieme i risultati di molte altre ricerche sugli effetti dei gas serra e sulla produzione di CO2, generando, con l’aiuto di climatologi di fama mondiale, un diagramma di previsione dell’innalzamento della temperatura terrestre.

l punto di non ritorno, secondo i miei studi, sarebbe stato intorno al 2050 con un incremento della temperatura di circa 2,5 gradi e la prospettiva di ulteriori aumenti fino a 6 gradi entro il 2100.

Secondo la mia triste previsione, con l’innalzamento delle temperature di circa 2,5 gradi, rispetto al 1900, il livello di scioglimento dei ghiacciai sarebbe stato catastrofico causando l’elevazione del livello medio del mare fino a 5 metri con l’effetto di far sparire enormi tratti di costa. Il Mediterraneo aveva il vantaggio di essere un mare chiuso per cui era destinato ad essere uno degli ultimi mari a risentire del problema dell’innalzamento del livello medio del mare, ma non ne era esente. Certo una bella notizia ma non per tutti. La fragilità di Venezia non le avrebbe consentito di tollerare innalzamenti superiori ai 60 centimetri, mentre la previsione più rosea dava un valore superiore al metro entro il 2050.

CONTATTO

Una mattina di luglio del 2025, ero disteso a prendere il sole. La zona attorno la “rotonda sul mare” di Isola Verde era uno dei pochi tratti di costa veneta in cui era rimasta della sabbia, e non per mera casualità.

Frequentavo quel lido da inizio millennio, quando tutto il litorale era sabbioso. Nel secolo precedente la spiaggia era larga oltre 50 metri, dai primi anni del XXI secolo si era ridotta a poche decine di metri ed in alcuni tratti era quasi completamente sparita. Quel piccolo tratto di mare aveva mantenuto la spiaggia sabbiosa grazie a me.

Io sono un affermato architetto e sono stato sempre considerato un visionario per la grandezza e raffinatezza dei miei progetti. Nonostante la loro maestosità, i prodotti finali sono risultati più economici di quanto non sembrasse ad un occhio distratto, grazie alla sostenibilità energetica ed ambientale che ripagava in poco tempo una porzione dei costi di costruzione e all’attrattiva che l’opera in sé riusciva a suscitare, attraendo turisti.

Una decina di anni prima, al termine di una delle giornate più calde e ventose della stagione, stavo chiacchierando con Mario, il proprietario del lido, raccontandogli, tra uno spritz ed un prosecco, i lavori più sorprendenti che mi erano stati commissionati in varie aree del mondo. Mario, abitualmente, si divertiva ad ascoltare i racconti di come avevo realizzato un mega hotel nel deserto arabico o un centro commerciale sottomarino in Giappone, quel giorno, invece, Mario aveva manifestato la sua preoccupazione per il fatto che ogni anno il mare mangiasse metri di spiaggia e le dighe messe ai lati e di fronte alla costa non fossero state sufficienti ad arginare l’erosione. Mentre lui parlava, avevo iniziato a fare uno schizzo sulla tovaglietta del bar. Vedendo il mio disegno buttato là come per gioco, quell’uomo aveva capito che era necessario tentare il tutto per tutto, se avesse voluto continuare a gestire un lido balneare. L’anno successivo nacque la Rotonda.

Con un’azione di crowdfunding, il gestore della spiaggia era riuscito a convincere i proprietari del residence confinante ad investire nel progetto. Io avevo portato in dote una lista di sponsor con i quali lavoravo da anni e che credevano in me. Il risultato era stato l’innalzamento di un piccolo tratto della spiaggia, facendolo poi proseguire fin dentro il mare attraverso una larga lingua di roccia che si estendeva per circa 70 metri verso il mare aperto. Più larga e più lunga delle dighe fatte negli anni precedenti nel vano tentativo di trattenere la sabbia, la lingua aveva due diramazioni per lato leggermente inclinate verso la linea di costa. Nella parte interna di ciascuna diramazione erano stati realizzati dei terrazzamenti riempiti di sabbia per formare delle piccole spiaggette o solarium sopraelevati. L’ultima terrazza digradava fino al pelo dell’acqua. L’altezza originaria era di oltre cinque metri ma già mezzo metro abbondante era sparito sotto il crescente livello del mare. La lingua si chiudeva con un maestoso piazzale rotondo dal generoso diametro di 30 metri con bar ristorante a semicerchio, tutto vetri. A protezione del manufatto in mezzo al mare, una diga semicircolare posta a circa 15 metri dalla rotonda. Formava un arco di 180 gradi che dalle estremità si prolungava parallelamente alla lingua per 45 metri verso la costa. I prolungamenti avevano il compito di frangere le onde prima che investissero la lingua e i bracci laterali, mentre l’arco aveva anche il compito di essere la base per quattro pale eoliche.

La Rotonda non era solo la sede del bar con annesso solarium, della pista da ballo e del ristorante con i tavolini vista mare protetti dalle vetrate antivento, era un complesso sistema produttivo. La maggior parte di energia veniva generata dal sapiente sfruttamento del continuo movimento delle correnti e delle maree, attraverso turbine montate nei piloni di sostegno alla struttura. Alcuni piloni avevano anche la funzione di trattenere e separare i detriti che arrivavano copiosi dai fiumi, differenziandoli per tipologia. Tutto il tetto del ristorante era costituito da pannelli solari come gran parte delle pareti e dei rivestimenti delle passerelle. La corrente complessiva generata dalla rotonda era sufficiente per le esigenze del lido, del ristorante e parte del complesso residenziale.

Dopo il successo di quella rotonda, era stato richiesto il mio intervento per la costruzione di rotonde simili a Bibione, Jesolo, Sottomarina ed altre famose spiagge rimaste quasi completamente senza sabbia. L’unica che mi rifiutati di effettuare fu quella di Caorle perché la situazione era già troppo compromessa e difatti l’acqua invadeva già quotidianamente le strade sollevando un terribile puzzo di fognature e rendendo inutilizzabili la maggior parte delle piscine di cui erano ricche i condomini di Duna Verde. Era un vero disastro dal punto di vista ambientale ma finora erano tutti preoccupati per il solo impatto economico subito dai proprietari degli immobili che rischiavano di perdere l’intero valore del proprio investimento.

Mentre mi godevo il sole sulla pelle, disteso sul mio lettino, leggendo l’ennesimo libro giallo, in quella che ormai era diventata una spiaggia d’élite, fui avvicinato da un omone alto e robusto, dal viso rosso paonazzo. Inizialmente pensai che fosse accaldato a causa del suo abbigliamento con giacca sopra la camicia bianca e cravatta che poco si addiceva all’afa di quei giorni ma successivamente mi resi conto che lo strano uomo dai capelli ricci rossi ed il viso lentigginoso era in evidente stato di agitazione, sudava da tutte le parti stringendo al petto una borsa di pelle ormai consumata dal tempo. Dopo essersi accertato che fossi la persona giusta, mi chiese di ascoltarlo su un argomento delicatissimo. Mentre parlava si girava da tutte le parti, guardando in lontananza, quasi avesse paura di essere visto o ascoltato di nascosto. Pensai che fosse paranoico.

Mi aveva detto di essere un dipendente del Provveditorato interregionale per le opere pubbliche del Veneto, l’ex magistrato delle acque di Venezia. Mentre era a lavoro e stava archiviando in digitale una marea di documenti relativi ai progetti per la realizzazione del Mose, si era imbattuto sul mio carteggio ed aveva autonomamente approfondito le documentazioni sui rischi di innalzamento delle acque che avevo allegato. Era arrivato alle mie stesse conclusioni con la differenza che nel 2025 si vedevano concretamente i primi effetti di quanto io avevo previsto oltre 30 anni prima. Aveva sottoposto l’argomento all’attenzione di alcuni funzionari in Regione e due giorni dopo aveva ricevuto lettere anonime con minacce di morte oltre ad un richiamo formale dal Provveditore per aver divulgato materiale d’ufficio.

Successivamente, era riuscito ad entrare in contatto con un influente uomo politico che stava lavorando in Commissione Europea alla stesura di bandi per la protezione degli ambienti costieri. Non mi volle rilevare il nome del politico e nemmeno il proprio. Mi disse di chiamare lui Marte, come il messaggero degli dèi e di attendere per il nome del politico poiché questi non voleva compromettersi entrando in contatto con impresari interessati ai lavori. Io ascoltati con pazienza ed attenzione ma soprattutto con molta diffidenza quell’uomo e alla fine gli dissi che il progetto, così come l’avevo pensato 30 anni prima, non sarebbe più stato realizzabile perché i danni provocati alla costa dall’innalzamento del livello del mare comportavano un completo ridisegno della struttura e temevo che ormai sarebbe stato difficile decidere le priorità di cosa salvare e come. Non gli dissi, ma lo tenni come appunto mentale per me, che i materiali e le tecnologie odierne avrebbero abbassato il costo complessivo dell’opera aumentando l’efficienza e la sostenibilità dell’intero sistema. Sottolineai invece, che nessuno a Venezia sembrava realmente interessato a mettere in discussione la validità del Mose, e non lo avrei fatto nemmeno io.

Ritenevo che il Mose fosse stato utile e poteva continuare ad esserlo per qualche anno ancora, ma era largamente insufficiente per una protezione globale della città. Avevo spiegato i miei dubbi sul Mose nella documentazione tecnica inviata più volte in regione, alla Presidenza del Consiglio, al Ministero per i lavori pubblici, al Magistrato per le acque ed infine esposta in un documentario realizzato una decina di anni prima per una TV straniera per la quale avevo preparato un modello in rendering video 3D con gli effetti dell’innalzamento delle acque e la diminuzione di efficacia del Mose entro un paio di decenni. Spiegai a Marte, mi ero rassegnato a chiamarlo con quello strano nomignolo, che evidenziare in quel momento i limiti del Mose ad appena cinque anni dalla sua inaugurazione e dopo due decenni di dibattiti tra favorevoli e contrari, ingenti spese e lavori interminabili, era logico ma assolutamente improponibile.

Marte mi disse che i veneziani stavano cominciando a comprendere che l’illusione del Mose aveva perso ormai il suo fascino e soprattutto, non appena si sarebbe saputo che sarebbe stata l’Europa a mettere i soldi per il salvataggio di Venezia, sarebbero stati tutti d’accordo per nuove rivoluzionarie idee. Marte era inoltre sicuro che il politico col quale aveva parlato, avrebbe appoggiato il mio progetto perché ne era rimasto affascinato.

Io risposi che ormai avevo finito di fare progetti e che mi stavo godendo il mio meritato riposo. Non avrei mai potuto metter in cantiere un lavoro che avrebbe richiesto non meno di 10-15 anni di realizzazione privandomi probabilmente del gusto di vederlo finito. Stavo bluffando. L’offerta mi aveva lusingato moltissimo ed ero già a conoscenza di quel bando europeo in procinto di essere lanciato per salvare molte delle città costiere di tutta Europa che stavano lentamente scomparendo, con gravi danni dal punto di vista ecologico, economico e infine sociale per il pericoloso movimento migratorio dalla costa alle zone più interne delle nazioni e sempre più spesso anche con movimenti transnazionali. Gli europei che migrano? Sembrava la barzelletta del secolo, invece era triste realtà. Marte apparve deluso dalla mia risposta però non demorse, mi chiese se fossi in spiaggia da solo o in compagnia e se avesse potuto offrirmi il pranzo per approfondire alcuni dettagli prima della mia risposta definitiva. Accettai di pranzare con lui a patto che fosse stato mio ospite. Tramite la app del cellulare prenotai al ristorante della Rotonda un tavolo per due.

A tavola parlammo di alcuni dati tecnici relativi alla reale situazione ambientale della laguna e dell’area costiera veneta. Purtroppo, questi dati sulle maree, sulla salinità, sulla penetrazione delle falde salate nell’entroterra, non apparivano sui giornali e i dati pubblicati sui siti ufficiali del Ministero, del Provveditorato e delle Capitanerie di Porto, erano corretti al ribasso per non allarmare eccessivamente la popolazione. Marte continuava a guardarsi intorno ossessionato dal timore di essere spiato, abbassando il volume della voce fino a farlo diventare un sussurro quando faceva le rivelazioni più importanti o scandalose. Per mia indole, avevo nervi saldi e molto autocontrollo ma la sua apprensione era stata contagiosa ed iniziai anche io a esaminare con circospezione tutte le persone vicine a noi anche se non notavo nulla di anormale. Ci lasciammo con l’impegno di risentirci entro un paio di giorni.

PROGETTO

Dopo l’incontro con il misterioso Marte, feci passare più di una settimana. Era uno stratagemma per vedere se Marte fosse diventato impaziente e mi avesse contattato per primo, nonostante gli avessi espressamente detto di aspettare un mio messaggio in codice al suo cellulare. In realtà mi era servito più tempo del previsto perché un lavoro così totalizzante necessitava della massima concentrazione e la massima professionalità, per cui lavorai duro per garantirmi la collaborazione di uno staff tecnico di prim’ordine mentre mi stavo preparando per dare in sub-appalto ad amici architetti tutti i lavori che avevo in sospeso. Era necessario, adesso, verificare le coperture economiche e politiche che dovevano entrambe essere robuste ed affidabili.

Anche se non avevo ancora accettato il lavoro, stavo studiando le ultime soluzioni tecniche sui materiali e ascoltavo i pareri dei massimi esperti sulla laguna e sui cambiamenti climatici e ingegneri per ambiente e territorio, oltre a decine di biologi marini. Più andavo avanti, maggiori erano le informazioni, spesso contrastanti, che ricevevo e maggiore era il tempo che ritenevo necessario per prendere una decisione ponderata. Realizzare uno dei miei massimi sogni era affascinante, farlo sapendo che potesse creare più danni che apportare vantaggi non rientrava nei miei desideri, anzi mi sarei opposto con tutto me stesso se altri ci avessero provato.

Otto giorni dopo il mio primo contatto con Marte, ricevetti una busta anonima contenente un messaggio molto chiaro e diretto: “Abbandona qualsiasi nuovo progetto se non vuoi affondare anche tu come Venezia”. Non c’era nessun riferimento, la carta era perfettamente pulita e senza impronte, non avevo bisogno di portarlo alla polizia; i miei laboratori erano riusciti a verificare da soli. Nel pomeriggio, venni informato che molti dei tecnici ai quali mi ero rivolto avevano ricevuto telefonate in cui venivano messi in guardia dal collaborare con architetti che avrebbero affondato la loro serietà e credibilità. Nelle telefonate venivano utilizzati in maniera sibillina i termini affondato e pericoloso perché facevano intuire che affondamento e pericolo andavano oltre l’aspetto professionale ma riguardavano la sfera personale. Quello fu l’incentivo maggiore che ricevetti per mandare il mio messaggio in codice a Marte.

Da allora ci fu un continuo via vai di persone nella sede del mio studio a Padova. Lo staff che avevo costituito era imponente e gli uffici erano diventati insufficienti. Affittai un intero capannone abbandonato. L’adattamento per renderlo operativo richiese più di un mese di lavori. Utilizzai le strutture dismesse da una mostra per creare i separé che dividevano i settori di sviluppo del progetto e lasciai libero quasi metà capannone per il montaggio del plastico. Un’opera così imponente non poteva certo ben essere rappresentata da un plastico da tavolino che comunque sarebbe stato realizzato per essere facilmente trasportabile in caso di necessità per la presentazione alle commissioni politiche, tecniche e alla stampa. A conti fatti, tra architetti, ingegneri edili, dei materiali, strutturali, ambientali e tutti i ricercatori dei vari rami necessari, compresi gli artisti per i plastici e i geometri da cantiere che volevo facessero parte del team sin dalle fasi progettuali per non incorrere in errori durante le fasi costruttive, eravamo quasi cento persone. Le risorse che avevo recuperato dai miei sponsor e quelle che erano state messe in campo dal personaggio misterioso che io ormai chiamavo il padrino dell’opera, erano insufficienti. Tra affitto e stipendi non volevo rischiare di anticipare molti soldi per un progetto di cui ancora non sapevamo se interessasse realmente a qualcuno. Così forzai la mano con Marte per avere un incontro con il padrino allo scopo di verificare la concretezza della cordata dei finanziatori e soprattutto del procedimento politico per dare attuazione al progetto.

La risposta fu quantomai evasiva. Ebbi l’impressione che l’interesse verso l’opera fosse scemato. Alzai la voce e dissi a Marte che se mi ero imbattuto in quel progetto faraonico era perché mi era stato chiesto espressamente e non per un mio vezzo, perciò, volevo un incontro immediato col padrino. Marte mi confidò che il progetto di bando europeo stava andando avanti ma proprio quello era il problema. Si erano presentati altri progettisti da tutta Europa ed anche dalla Cina con soluzioni alternative: dighe mobili, iniezioni di gas sotterranei per il sollevamento del terreno, sbarramenti nel basso adriatico per impedire l’accesso alle acque ed altre decine di idee bizzarre. Marte mi raccomandava di tener presente che il finanziamento europeo avrebbe riguardato progetti per tutta l’area del Mediterraneo e non c’era solo Venezia da salvare per cui le idee e le aree di provenienza dei progetti erano molto variegate. Chiesi se fosse un modo per indorare la pillola e se avessero già deciso di affidare il progetto ad altri perché in tal caso avevo due sole possibilità: chiudere e mandare tutti a casa o andare avanti autonomamente e sulle due ipotesi non avevo dubbi: se il padrino non avesse voluto più appoggiarmi avrei corso da solo contro tutti. Lo salutai dicendogli che era l’ultima volta che ci sentivamo.

Due ore dopo ricevetti una telefonata che mi preannunciava la visita del padrino. Il padrino sarebbe arrivato, apposta per parlare con me, direttamente da Bruxelles e perciò volle accertarsi che lo aspettassi in capannone. Arrivò con Marte ed altre due persone, una delle quali aveva l’aria di essere una guardia del corpo. Il padrino mi spiegò che la situazione era molto cambiata dalla prima volta che ci eravamo sentiti. L’approvazione del bando era prossima ed anche a Venezia si erano messi il cuore in pace perché non era in discussione il Mose ma la protezione di tutte le città costiere. Pensai che dovesse essere quello il motivo per cui da giorni non ricevevo più minacce. Chi gestiva il Mose stava presentando delle istanze per agganciarsi con nuove paratie utilizzando questa trance di finanziamenti, Il problema vero era che, secondo il padrino, il mio progetto era troppo costoso, poco esportabile in altre situazioni e c’erano dei seri dubbi dal punto di vista ambientale non per l’ambiente marino o per la flora quanto per gli uomini. Il mio progetto poteva creare grossi condizionamenti comportamentali agli uomini.

OPERA

Era la vecchia storia dell’agorafobia. Ne parlava pure Azimov quando descriveva il pianeta Trantor, capitale dell’Universo, la città-pianeta. In effetti la mia struttura era largamente ispirata a Trantor ma comportava delle enormi differenze. Trantor era un pianeta composto da un’unica megalopoli inscatolata dentro grandi cupole. Le persone non uscivano mai dalle cupole perché l’aria, fuori, era irrespirabile. Nel mio progetto non parlavo di cupola quanto piuttosto di involucri che avrebbero avvolto Venezia e l’ambiente marino prospicente. Chiudere larghe porzioni di spazio abitato da uomini, flora e fauna molto variegati tra ambiente terrestre, aereo, marino, fluviale e lagunare era quasi impensabile. Farlo garantendo a ciascuna specie la libera circolazione tra interno ed esterno e mantenendo il controllo sull’altezza del livello marino era stata per me la grande sfida. E proprio per questo motivo, ne ero convinto, il rischio agorafobia era scongiurato. Il padrino mi disse che non tutti ragionavano con la mia stessa testa ed il solo fatto di pensare Venezia chiusa dentro una bolla di vetro come i souvenir venduti in città, faceva rabbrividire la popolazione, i politici, gli esperti d’arte, gli etologi e gli psicologi che immaginavano di veder moltiplicare gli stati depressivi.

Io tornai a rassicurare il padrino sul progetto ma chiesi a lui maggiore concretezza economica e politica. La fase progettuale avrebbe richiesto almeno diciotto mesi di stipendi ed affitti. Dopo la presentazione del progetto avrei ridotto lo staff a circa 15 persone in attesa dell’aggiudicazione i cui tempi erano incerti. In poche parole, avevo bisogno di sponsor e finanziatori per coprire le spese fisse per non meno di due anni e conoscere i nomi delle persone che avrebbero indubbiamente appoggiato il progetto durante tutto il percorso di valutazione ed approvazione. Il padrino entrò nei dettagli tecnici del bando e mi confermò che parte dei soldi sarebbero stati rifusi anche in caso di non aggiudicazione. Gli feci notare che tramite i miei contatti ero riuscito a mettere in piedi tutta quella struttura ma la cifra da investire sarebbe stata comunque notevole per le mie sole forze per cui, come mi aveva promesso all’inizio, toccava a lui trovare gli adeguati sostegni economici. Il padrino si mise a ridere e mi disse, come mi aspettavo, che normalmente sono gli imprenditori che creano la propria cordata di finanziatori e poi, tramite i finanziatori sollecitano il potere politico, non il contrario. Ero preparato a questa sua risposta ed infatti avevo rafforzato la mia cordata di finanziatori che però mi avevano garantito il sostegno al massimo per due anni. Se nel frattempo i lavori non fossero iniziati, la mancanza di ritorno d’immagine avrebbe indebolito il loro interesse. In realtà entrambi stavamo giocando al gatto col topo e ne eravamo consapevoli. Il Padrino ci tenne a specificare che il suo non era un interesse economico bensì politico. In linea di massima per lui sarebbe stata comunque una vittoria, qualunque progetto fosse stato approvato, pur di far vincere Venezia, nella corsa all’aggiudicazione di questo primo importantissimo bando. Se poi il progetto vincente fosse stato il mio, lo avrebbe preferito perché ne aveva apprezzato la bontà già molti anni prima e ancora oggi lo riteneva più completo di tutti gli altri. Questo era il motivo per cui si era deciso a procurare i finanziatori, movimentando le sue conoscenze nell’ambito bancario, assicurativo e delle partecipate statali.

Ordinai la cena per asporto, per evitare di essere visti assieme in giro ed il padrino ebbe modo di apprezzare che conoscevo ristoranti di ottimo livello in grado di fornire un delizioso pasto a domicilio con tanto di vino pregiato. Durante la cena affrontammo altri aspetti tecnici.

Spiegai al padrino alcune problematiche da risolvere. La prima era l’interferenza con l’aeroporto Marco Polo, che doveva necessariamente stare fuori dall’involucro e per il quale avevo interessato l’ENAC per lo studio delle nuove rotte di avvicinamento. Per l’aeroporto del Lido, utilizzato dal traffico turistico e d’élite, c’erano due sole soluzioni: chiudere l’aeroporto, più semplice ma meno condivisibile, oppure creare un unico punto di accesso a nord-est interrompendo la continuità dell’involucro in direzione Caorle.

Lo scopo dell’involucro, non volevo chiamarlo cupola, era quello di prevenire l’acqua alta ma non solo. L’aumento delle temperature stava già provocando notevoli danni per l’intensità dei fenomeni piovosi ed elettrici che combinati all’azione degli acidi presenti nell’aria stava letteralmente erodendo i monumenti cittadini. Da qui la necessità di coprire quantomeno il centro storico. La soluzione minimalista avrebbe provocato più danni che vantaggi, riducendo veramente la città ad un souvenir invivibile. Bisognava ampliare la protezione e contemporaneamente dare respiro, aria alla città e perché no, anche mantenere una buona visibilità d’insieme, vivendo all’interno dell’involucro. Ma tornando all’unica problematica finora sottoposta all’attenzione del grande pubblico, si doveva principalmente fermare l’acqua alta. Per farlo dovevo isolare il mare. Isolando il mare, ossia creando una barriera continua lungo tutta la linea di costa fatta eccezione per le conche a differente altezza, come nel canale di Panama, per consentire il traffico navale, avrei impedito il libero sbocco verso il mare, delle acque dei fiumi, dei canali e piovane poiché avrebbero trovato uno sbarramento che ne avrebbe impedito il normale deflusso con il rischio di allagamenti per i terreni circostanti, anche fuori dall’area lagunare. A questo problema si aggiungeva quello della libera circolazione dei pesci che da millenni vanno in laguna per la riproduzione ma escono in mare aperto durante la vita normale. E non potevo certo trascurare le esigenze della fauna avicola che sia con le specie stanziali e sia con quelle migratorie aveva la necessità di spazi molto ampi.

Dallo studio fatto in combinazione tra etologi e strutturisti avevo determinato l’altezza massima in 180 metri. Logicamente tale altezza degradava man mano che ci si allontanava dall’arco centrale per finire quasi verticalmente sul mare. Il lato est, quello esposto al mare, sarebbe comunque stato abbastanza imponente con i suoi 50 metri di altezza per lasciare sufficiente mobilità a gabbiani e cormorani. Le problematiche maggiori erano sotto il livello del mare. Per evitare l’innalzamento del livello, il bordo dell’involucro doveva essere saldato sul fondo marino ma per consentire alla laguna di vivere era necessario garantire abbondanti scambi di acqua con relativa flora, fauna e nutrienti. La soluzione era posizionare molti tunnel a profondità variabile e senso di corrente gestito da un apposito centro maree che avrebbe regolato il flusso di acqua in entrata ed uscita col doppio compito di alimentare la laguna e di controllare il livello dell’acqua. Conche di notevoli dimensioni, poste alle foci dei fiumi, avrebbero garantito il normale deflusso dell’acqua fluviale con dispositivi per il trattenimento e smaltimento dei rami e rifiuti vari trasportati a valle e pompe idrovore che avrebbero sollevato l’acqua per farla defluire all’esterno dell’involucro tramite aperture ad un’altezza di circa dieci metri sull’attuale livello del mare, sfruttando ai fini energetici anche l’effetto cascata. Il padrino rimase contento delle molte spiegazioni che gli diedi e mi garantì il suo massimo impegno personale per l’aggiudicazione del progetto.

Come al solito la politica ha tempi molto dilatati e la fase di preparazione del bando richiese due lunghi anni cui seguirono gli studi delle commissioni, le valutazioni di impatto ambientale, blocchi dovuti a ricorsi interminabili. Avevo quasi perso le speranze di vedere realizzato il mio o qualsiasi altro progetto. Come avevo detto all’inizio, salvare Venezia non fu facile. Il livello del mare aumentava vertiginosamente, provocando maree sempre più alte e più durature che nell’ultimo ventennio. Con mia sorpresa, da inizio 2028 vidi arrivare ai miei studi padovani diversi politici regionali, nazionali ed europei, rappresentanti delle organizzazioni produttive di Mestre, rappresentanti sindacali, esercenti, albergatori e gli stessi ambientalisti che solo due anni prima avevano fortemente protestato contro il mio progetto fomentando qualche esagitato che mise una bomba sul retro del capannone provocando danni enormi al deposito attrezzi ed al plastico che preferimmo ricostruire daccapo piuttosto che ripararlo, anche perché gli interventi di modifica fatti nel corso del tempo erano stati essi stessi traumatici per il plastico. Volevano tutti la stessa cosa: cambiare tutto perché alla fine non cambiasse niente, ossia stravolgere Venezia e la laguna pur di rimanere a vivere e lavorare a Venezia. Io dicevo con tono drammatico che qualsiasi progetto minimalista avrebbe messo solo una pezza temporanea ad un processo iniziato molto indietro nel tempo e per il quale non c’era nessuna soluzione. L’unica cosa certa era che se si fosse rimasti inerti ancora qualche anno, Venezia sarebbe sparita sott’acqua, le piazze e i primi piani del centro storico erano destinati ad impantanarsi. Tutte le alternative erano sì interventi traumatici per il territorio ma che avrebbero salvato Venezia come simbolo di civiltà e soprattutto avrebbero consentito agli insediamenti umani di rimanere sul proprio territorio altrimenti tutta la popolazione avrebbe dovuto mettere il proprio fagottino sulle spalle e trasferirsi altrove in Italia, nel resto d’Europa o in Australia come si era fatto per quasi tutto il ventesimo secolo.

MORO

Adesso sono molto vecchio, non riesco più a muovermi autonomamente e devo avvalermi di questo esoscheletro che mi fa camminare quasi senza dolori. La testa fortunatamente funziona ancora abbastanza bene anche se non tanto quanto vorrei per tenere in mano le redini del progetto che si accinge ad arrivare alla sua inaugurazione. Devo piegarmi spesso alle più veloci deduzioni dei nuovi architetti e ingegneri rampanti. Tra le cose che mi rimproverano, quella di non aver mai voluto trovare un nome all’involucro e aver dato modo ai politici di battezzarlo Muraglia Ondulare Regolatrice Oceanografica per trasformarlo nella sigla MORO e far rivivere così il mito del Moro di Venezia mentre i veneziani lo chiamano in maniera simpatica ed affettuosa “ea luganega de vero” per la forma degli involucri che visti dall’alto sembrano proprio tre salsicciotti più o meno omogenei di vetro brillante.

Dentro i salsicciotti la vita è tornata a scorrere naturale. Non si può dire che non si notino, però la loro trasparenza e la cura nella forma architettonica dei supporti all’interno, li rendono facilmente accettabili. Sono stati costruiti venti alberghi a forma di torre, la maggior parte in laguna e raggiungibili solo in barca, cinque sulla terraferma a Sottomarina, Pellestrina, Lido, Sant’Erasmo e Cavallino. Perfettamente rotondi ed alti circa 120 metri che celano al loro interno una robusta anima in acciaio su cui poggiano le travi di sostegno al cosiddetto reticolato minore, quello che supporta la curvatura della volta. Alla fine, anche la popolazione umana si è adeguata, rassegnata, arresa, a seconda del proprio livello di tolleranza e dopo aver superato le ritrosie dovute alla resistenza al cambiamento. Gli uccelli proliferano in questa mega serra lagunare dalla quale possono sempre entrare ed uscire a piacimento attraverso le generose aperture poste su più punti ad altezze diverse. La laguna aveva avuto un contraccolpo iniziale, soprattutto per lo stravolgimento dei lavori in corso ma i pesci e le specie vegetali si sono ambientate più velocemente di quanto non fosse normale pensare. Non era un caso. C’erano stati anni di studi e di impegno di tutto il mio staff in collaborazione con decine di istituzioni pubbliche e private e con le varie associazioni naturalistiche e di volontariato per la protezione ed il ripopolamento dell’ambiente marino.

Nonostante la parziale chiusura dell’involucro, l’aria a Venezia è molto pulita e respirabile. Dall’involucro esterno viene prelevata l’aria più pura, quella in quota, immagazzinata nell’intercapedine, filtrata e trattata con ioni, riscaldata o raffreddata a seconda della stagione attraverso scambiatori di calore ad energia solare e reimmessa in circolo negli strati più bassi riducendo in maniera considerevole le necessità di riscaldamento e condizionamento nelle abitazioni private, nei locali pubblici e negli uffici con enorme risparmio economico ma soprattutto con ridotto impatto ambientale. La pioggia artificiale, tratta dagli strati umidi di aria opportunamente condensata e fatta precipitare uniformemente secondo calendari e orari ben stabiliti per evitare carenza e sovrabbondanza, aiuta gli uomini a pensare di essere in un ambiente naturale e aperto piuttosto che in un ambiente segregato. La struttura a doppio involucro presenta superfici esterne molto inclinate nella parte sommitale per dissipare velocemente eventuali precipitazioni nevose, per avere un angolo di impatto con la grandine molto basso, per scongiurare rotture e per consentire alle superfici vetrate dell’involucro interno di catturare meglio la luce del sole con i pannelli fotovoltaici trasparenti brevettati proprio da un gruppo di studio dell’Università di Venezia da dove ho reclutato il mio team di esperti di materiali fotovoltaici. L’aria non è immobile ma spinta in maniera naturale dalle molteplici aperture per gli uccelli. Sono come dei boccaporti all’interno della struttura. Nel Moro centrale una ventilazione aggiuntiva è garantita dall’apertura molto ampia per i decolli e atterraggi dal Lido.

L’eliminazione dei vaporetti a gasolio sostituiti da quelli a trazione elettrica, e la riduzione di altre fonti di inquinamento da energia fossile, ha contribuito a mantenere ed anzi migliorare la qualità dell’aria. Qualche inconveniente è dato dall’ombra proiettata sulla città e su tutte le zone all’interno dei salsicciotti, dal reticolo metallico per il sostegno delle pesanti e spesse pareti di vetro.

Dall’incrocio degli anelli orizzontali, di uguale altezza, e le travi verticali vengono formati ampi rettangoli a loro volta suddivisi in due triangoli isosceli con la basi affiancate e le punte orientate verso l’alto ed un triangolo capovolto con la base che occupa lo spazio lasciato libero tra le due punte dei triangoli precedenti. I triangoli rettangoli che vengono a formarsi, per completare la figura rettangolare, sono occupati in maniera saltuaria, ma non casuale, dai condizionatori d’aria, dai condensatori di umidità, dagli accumulatori di energia fotovoltaica e statica procurata dallo strofinio del vento, e dalle riserve di acqua.

I tre salsicciotti sono molto simili nella parte vicino al mare e si differenziano parecchio l’uno dall’altro in funzione dell’orografia dell’entroterra. Io li avrei chiamati tranquillamente involucro 1, 2 e 3 ed invece ci sono i tre Mori. Il “Moro di Chioggia” parte dalla foce del Brenta, comprende la spiaggia di Sottomarina e l’isola di Pellestrina. Con i suoi 18 km longitudinali, è il più lungo, ma il più sottile poiché l’unico tratto largo, circa 5,5 KM, è quello per coprire l’intera città di Chioggia, il resto, tranne in qualche punto, si estende per una larghezza massima di poco inferiore al chilometro. Il “Moro di Venezia” comprende il Lido, Venezia, Le Vignole e Murano. Ha una forma vagamente fallica dovendo coprire un’ampiezza di circa 13 km in prossimità della porta Lido per il passaggio delle navi, per poi stringersi a 7,5 km nel tratto sopra Venezia, affinarsi fino alla larghezza di 1,5 km e poi riallargarsi a 3,2 Km per coprire la porta di Malomocco. Il “Moro del Cavallino” lungo 14 Km e largo 8,5 nella sua massima estensione per comprendere le isole di Burano e Trocello, si estende da Punta Sabbioni alle foci del Sile. Sembrava il più semplice da realizzare ma la fragilità del terreno e l’evoluzione dell’erosione marina che aveva invaso molti chilometri di entroterra, aveva reso più difficile stabilire i punti di ancoraggio delle pareti ad ovest e nord.

Finalmente, dopo anni di crisi, i gestori delle spiagge sono tornati a sorridere. Da Sottomarina alla foce del Sile, oltre settantacinque metri di spiaggia con circa trecento metri di mare libero, pulito e con moto ondoso controllato, prima di incontrare le paratie in vetro e metallo che sigillano l’ambiente protetto. Per chi ha voglia di mare aperto basta recarsi in prossimità dei molti canali di uscita ed aspettare il proprio turno entro le paratie. A protezione dalla forza delle onde, in caso di mare molto agitato, per tutta la lunghezza dei salsicciotti, a circa 25 metri di distanza dalle pareti esterne, ci sono larghe muraglie, con frequenti archi per lo scambio delle acque e per il passaggio dei diportisti. Le muraglie sono sfalsate tra di loro per il passaggio di grandi imbarcazioni ed infine presentano aperture più ampie in corrispondenza delle entrate in laguna, per le grandi navi. Le muraglie sono alte più di quindici metri e fanno da base alla fila ordinata di pale eoliche. In alcuni tratti tra le muraglie e l’involucro ci sono strutture simili ai piloni di Isola verde per recuperare l’energia dalle onde e dalle maree.

Temevo che non sarei mai riuscito a vedere questa meraviglia. Ho messo sotto vetro Venezia e con lei Chioggia e quasi un terzo della laguna. A molti non piace, però ho garantito ai posteri la possibilità di vedere la stessa bellezza di cui noi e le generazioni precedenti abbiamo goduto per oltre un millennio. Con mio sommo dolore, non sono riuscito ad includere nel progetto anche la spiaggia di Isola Verde. Mi consolo pensando che al momento ha le sue Rotonde felici (ne sono state realizzate altre quattro negli ultimi anni, non appena fu scoperto che quella spiaggia sarebbe rimasta fuori dagli involucri) e che, se qualcuno vorrà finanziare la chiusura di altri litorali di costa, basterà fare gli studi tecnici dell’ambiente ma il modello della struttura è ampiamente esportabile. Difatti, il mio studio, o meglio lo studio che porta il mio nome ma gestito dalle giovani mani di nuovi architetti emergenti, ha avviato da un paio d’anni la costruzione degli involucri nel golfo di Trieste da Muggia a Monfalcone e anche un tratto della riviera romagnola. Non passeranno molti anni che tutta la costa verrà sigillata. Speriamo che sia sufficiente a salvare città e popolazioni.

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Salvare Venezia. Racconto – Cap. 5 di 5

MORO

Adesso sono molto vecchio, non riesco più a muovermi autonomamente e devo avvalermi di questo esoscheletro che mi fa camminare quasi senza dolori. La testa fortunatamente funziona ancora abbastanza bene anche se non tanto quanto vorrei per tenere in mano le redini del progetto che si accinge ad arrivare alla sua inaugurazione. Devo piegarmi spesso alle più veloci deduzioni dei nuovi architetti e ingegneri rampanti. Tra le cose che mi rimproverano, quella di non aver mai voluto trovare un nome all’involucro e aver dato modo ai politici di battezzarlo Muraglia Ondulare Regolatrice Oceanografica per trasformarlo nella sigla MORO e far rivivere così il mito del Moro di Venezia mentre i veneziani lo chiamano in maniera simpatica ed affettuosa “ea luganega de vero” per la forma degli involucri che visti dall’alto sembrano proprio tre salsicciotti più o meno omogenei di vetro brillante.

Dentro i salsicciotti la vita è tornata a scorrere naturale. Non si può dire che non si notino, però la loro trasparenza e la cura nella forma architettonica dei supporti all’interno, li rendono facilmente accettabili. Sono stati costruiti venti alberghi a forma di torre, la maggior parte in laguna e raggiungibili solo in barca, cinque sulla terraferma a Sottomarina, Pellestrina, Lido, Sant’Erasmo e Cavallino. Perfettamente rotondi ed alti circa 120 metri che celano al loro interno una robusta anima in acciaio su cui poggiano le travi di sostegno al cosiddetto reticolato minore, quello che supporta la curvatura della volta. Alla fine, anche la popolazione umana si è adeguata, rassegnata, arresa, a seconda del proprio livello di tolleranza e dopo aver superato le ritrosie dovute alla resistenza al cambiamento. Gli uccelli proliferano in questa mega serra lagunare dalla quale possono sempre entrare ed uscire a piacimento attraverso le generose aperture poste su più punti ad altezze diverse. La laguna aveva avuto un contraccolpo iniziale, soprattutto per lo stravolgimento dei lavori in corso ma i pesci e le specie vegetali si sono ambientate più velocemente di quanto non fosse normale pensare. Non era un caso. C’erano stati anni di studi e di impegno di tutto il mio staff in collaborazione con decine di istituzioni pubbliche e private e con le varie associazioni naturalistiche e di volontariato per la protezione ed il ripopolamento dell’ambiente marino.

Nonostante la parziale chiusura dell’involucro, l’aria a Venezia è molto pulita e respirabile. Dall’involucro esterno viene prelevata l’aria più pura, quella in quota, immagazzinata nell’intercapedine, filtrata e trattata con ioni, riscaldata o raffreddata a seconda della stagione attraverso scambiatori di calore ad energia solare e reimmessa in circolo negli strati più bassi riducendo in maniera considerevole le necessità di riscaldamento e condizionamento nelle abitazioni private, nei locali pubblici e negli uffici con enorme risparmio economico ma soprattutto con ridotto impatto ambientale. La pioggia artificiale, tratta dagli strati umidi di aria opportunamente condensata e fatta precipitare uniformemente secondo calendari e orari ben stabiliti per evitare carenza e sovrabbondanza, aiuta gli uomini a pensare di essere in un ambiente naturale e aperto piuttosto che in un ambiente segregato. La struttura a doppio involucro presenta superfici esterne molto inclinate nella parte sommitale per dissipare velocemente eventuali precipitazioni nevose, per avere un angolo di impatto con la grandine molto basso, per scongiurare rotture e per consentire alle superfici vetrate dell’involucro interno di catturare meglio la luce del sole con i pannelli fotovoltaici trasparenti brevettati proprio da un gruppo di studio dell’Università di Venezia da dove ho reclutato il mio team di esperti di materiali fotovoltaici. L’aria non è immobile ma spinta in maniera naturale dalle molteplici aperture per gli uccelli. Sono come dei boccaporti all’interno della struttura. Nel Moro centrale una ventilazione aggiuntiva è garantita dall’apertura molto ampia per i decolli e atterraggi dal Lido.

L’eliminazione dei vaporetti a gasolio sostituiti da quelli a trazione elettrica, e la riduzione di altre fonti di inquinamento da energia fossile, ha contribuito a mantenere ed anzi migliorare la qualità dell’aria. Qualche inconveniente è dato dall’ombra proiettata sulla città e su tutte le zone all’interno dei salsicciotti, dal reticolo metallico per il sostegno delle pesanti e spesse pareti di vetro.

Dall’incrocio degli anelli orizzontali, di uguale altezza, e le travi verticali vengono formati ampi rettangoli a loro volta suddivisi in due triangoli isosceli con la basi affiancate e le punte orientate verso l’alto ed un triangolo capovolto con la base che occupa lo spazio lasciato libero tra le due punte dei triangoli precedenti. I triangoli rettangoli che vengono a formarsi, per completare la figura rettangolare, sono occupati in maniera saltuaria, ma non casuale, dai condizionatori d’aria, dai condensatori di umidità, dagli accumulatori di energia fotovoltaica e statica procurata dallo strofinio del vento, e dalle riserve di acqua.

I tre salsicciotti sono molto simili nella parte vicino al mare e si differenziano parecchio l’uno dall’altro in funzione dell’orografia dell’entroterra. Io li avrei chiamati tranquillamente involucro 1, 2 e 3 ed invece ci sono i tre Mori. Il “Moro di Chioggia” parte dalla foce del Brenta, comprende la spiaggia di Sottomarina e l’isola di Pellestrina. Con i suoi 18 km longitudinali, è il più lungo, ma il più sottile poiché l’unico tratto largo, circa 5,5 KM, è quello per coprire l’intera città di Chioggia, il resto, tranne in qualche punto, si estende per una larghezza massima di poco inferiore al chilometro. Il “Moro di Venezia” comprende il Lido, Venezia, Le Vignole e Murano. Ha una forma vagamente fallica dovendo coprire un’ampiezza di circa 13 km in prossimità della porta Lido per il passaggio delle navi, per poi stringersi a 7,5 km nel tratto sopra Venezia, affinarsi fino alla larghezza di 1,5 km e poi riallargarsi a 3,2 Km per coprire la porta di Malomocco. Il “Moro del Cavallino” lungo 14 Km e largo 8,5 nella sua massima estensione per comprendere le isole di Burano e Trocello, si estende da Punta Sabbioni alle foci del Sile. Sembrava il più semplice da realizzare ma la fragilità del terreno e l’evoluzione dell’erosione marina che aveva invaso molti chilometri di entroterra, aveva reso più difficile stabilire i punti di ancoraggio delle pareti ad ovest e nord.

Finalmente, dopo anni di crisi, i gestori delle spiagge sono tornati a sorridere. Da Sottomarina alla foce del Sile, oltre settantacinque metri di spiaggia con circa trecento metri di mare libero, pulito e con moto ondoso controllato, prima di incontrare le paratie in vetro e metallo che sigillano l’ambiente protetto. Per chi ha voglia di mare aperto basta recarsi in prossimità dei molti canali di uscita ed aspettare il proprio turno entro le paratie. A protezione dalla forza delle onde, in caso di mare molto agitato, per tutta la lunghezza dei salsicciotti, a circa 25 metri di distanza dalle pareti esterne, ci sono larghe muraglie, con frequenti archi per lo scambio delle acque e per il passaggio dei diportisti. Le muraglie sono sfalsate tra di loro per il passaggio di grandi imbarcazioni ed infine presentano aperture più ampie in corrispondenza delle entrate in laguna, per le grandi navi. Le muraglie sono alte più di quindici metri e fanno da base alla fila ordinata di pale eoliche. In alcuni tratti tra le muraglie e l’involucro ci sono strutture simili ai piloni di Isola verde per recuperare l’energia dalle onde e dalle maree.

Temevo che non sarei mai riuscito a vedere questa meraviglia. Ho messo sotto vetro Venezia e con lei Chioggia e quasi un terzo della laguna. A molti non piace, però ho garantito ai posteri la possibilità di vedere la stessa bellezza di cui noi e le generazioni precedenti abbiamo goduto per oltre un millennio. Con mio sommo dolore, non sono riuscito ad includere nel progetto anche la spiaggia di Isola Verde. Mi consolo pensando che al momento ha le sue Rotonde felici (ne sono state realizzate altre quattro negli ultimi anni, non appena fu scoperto che quella spiaggia sarebbe rimasta fuori dagli involucri) e che, se qualcuno vorrà finanziare la chiusura di altri litorali di costa, basterà fare gli studi tecnici dell’ambiente ma il modello della struttura è ampiamente esportabile. Difatti, il mio studio, o meglio lo studio che porta il mio nome ma gestito dalle giovani mani di nuovi architetti emergenti, ha avviato da un paio d’anni la costruzione degli involucri nel golfo di Trieste da Muggia a Monfalcone e anche un tratto della riviera romagnola. Non passeranno molti anni che tutta la costa verrà sigillata. Speriamo che sia sufficiente a salvare città e popolazioni.

Salvare Venezia. Racconto – Cap. 4 di 5

OPERA

Era la vecchia storia dell’agorafobia. Ne parlava pure Azimov quando descriveva il pianeta Trantor, capitale dell’Universo, la città-pianeta. In effetti la mia struttura era largamente ispirata a Trantor ma comportava delle enormi differenze. Trantor era un pianeta composto da un’unica megalopoli inscatolata dentro grandi cupole. Le persone non uscivano mai dalle cupole perché l’aria, fuori, era irrespirabile. Nel mio progetto non parlavo di cupola quanto piuttosto di involucri che avrebbero avvolto Venezia e l’ambiente marino prospicente. Chiudere larghe porzioni di spazio abitato da uomini, flora e fauna molto variegati tra ambiente terrestre, aereo, marino, fluviale e lagunare era quasi impensabile. Farlo garantendo a ciascuna specie la libera circolazione tra interno ed esterno e mantenendo il controllo sull’altezza del livello marino era stata per me la grande sfida. E proprio per questo motivo, ne ero convinto, il rischio agorafobia era scongiurato. Il padrino mi disse che non tutti ragionavano con la mia stessa testa ed il solo fatto di pensare Venezia chiusa dentro una bolla di vetro come i souvenir venduti in città, faceva rabbrividire la popolazione, i politici, gli esperti d’arte, gli etologi e gli psicologi che immaginavano di veder moltiplicare gli stati depressivi.

Io tornai a rassicurare il padrino sul progetto ma chiesi a lui maggiore concretezza economica e politica. La fase progettuale avrebbe richiesto almeno diciotto mesi di stipendi ed affitti. Dopo la presentazione del progetto avrei ridotto lo staff a circa 15 persone in attesa dell’aggiudicazione i cui tempi erano incerti. In poche parole, avevo bisogno di sponsor e finanziatori per coprire le spese fisse per non meno di due anni e conoscere i nomi delle persone che avrebbero indubbiamente appoggiato il progetto durante tutto il percorso di valutazione ed approvazione. Il padrino entrò nei dettagli tecnici del bando e mi confermò che parte dei soldi sarebbero stati rifusi anche in caso di non aggiudicazione. Gli feci notare che tramite i miei contatti ero riuscito a mettere in piedi tutta quella struttura ma la cifra da investire sarebbe stata comunque notevole per le mie sole forze per cui, come mi aveva promesso all’inizio, toccava a lui trovare gli adeguati sostegni economici. Il padrino si mise a ridere e mi disse, come mi aspettavo, che normalmente sono gli imprenditori che creano la propria cordata di finanziatori e poi, tramite i finanziatori sollecitano il potere politico, non il contrario. Ero preparato a questa sua risposta ed infatti avevo rafforzato la mia cordata di finanziatori che però mi avevano garantito il sostegno al massimo per due anni. Se nel frattempo i lavori non fossero iniziati, la mancanza di ritorno d’immagine avrebbe indebolito il loro interesse. In realtà entrambi stavamo giocando al gatto col topo e ne eravamo consapevoli. Il Padrino ci tenne a specificare che il suo non era un interesse economico bensì politico. In linea di massima per lui sarebbe stata comunque una vittoria, qualunque progetto fosse stato approvato, pur di far vincere Venezia, nella corsa all’aggiudicazione di questo primo importantissimo bando. Se poi il progetto vincente fosse stato il mio, lo avrebbe preferito perché ne aveva apprezzato la bontà già molti anni prima e ancora oggi lo riteneva più completo di tutti gli altri. Questo era il motivo per cui si era deciso a procurare i finanziatori, movimentando le sue conoscenze nell’ambito bancario, assicurativo e delle partecipate statali.

Ordinai la cena per asporto, per evitare di essere visti assieme in giro ed il padrino ebbe modo di apprezzare che conoscevo ristoranti di ottimo livello in grado di fornire un delizioso pasto a domicilio con tanto di vino pregiato. Durante la cena affrontammo altri aspetti tecnici.

Spiegai al padrino alcune problematiche da risolvere. La prima era l’interferenza con l’aeroporto Marco Polo, che doveva necessariamente stare fuori dall’involucro e per il quale avevo interessato l’ENAC per lo studio delle nuove rotte di avvicinamento. Per l’aeroporto del Lido, utilizzato dal traffico turistico e d’élite, c’erano due sole soluzioni: chiudere l’aeroporto, più semplice ma meno condivisibile, oppure creare un unico punto di accesso a nord-est interrompendo la continuità dell’involucro in direzione Caorle.

Lo scopo dell’involucro, non volevo chiamarlo cupola, era quello di prevenire l’acqua alta ma non solo. L’aumento delle temperature stava già provocando notevoli danni per l’intensità dei fenomeni piovosi ed elettrici che combinati all’azione degli acidi presenti nell’aria stava letteralmente erodendo i monumenti cittadini. Da qui la necessità di coprire quantomeno il centro storico. La soluzione minimalista avrebbe provocato più danni che vantaggi, riducendo veramente la città ad un souvenir invivibile. Bisognava ampliare la protezione e contemporaneamente dare respiro, aria alla città e perché no, anche mantenere una buona visibilità d’insieme, vivendo all’interno dell’involucro. Ma tornando all’unica problematica finora sottoposta all’attenzione del grande pubblico, si doveva principalmente fermare l’acqua alta. Per farlo dovevo isolare il mare. Isolando il mare, ossia creando una barriera continua lungo tutta la linea di costa fatta eccezione per le conche a differente altezza, come nel canale di Panama, per consentire il traffico navale, avrei impedito il libero sbocco verso il mare, delle acque dei fiumi, dei canali e piovane poiché avrebbero trovato uno sbarramento che ne avrebbe impedito il normale deflusso con il rischio di allagamenti per i terreni circostanti, anche fuori dall’area lagunare. A questo problema si aggiungeva quello della libera circolazione dei pesci che da millenni vanno in laguna per la riproduzione ma escono in mare aperto durante la vita normale. E non potevo certo trascurare le esigenze della fauna avicola che sia con le specie stanziali e sia con quelle migratorie aveva la necessità di spazi molto ampi.

Dallo studio fatto in combinazione tra etologi e strutturisti avevo determinato l’altezza massima in 180 metri. Logicamente tale altezza degradava man mano che ci si allontanava dall’arco centrale per finire quasi verticalmente sul mare. Il lato est, quello esposto al mare, sarebbe comunque stato abbastanza imponente con i suoi 50 metri di altezza per lasciare sufficiente mobilità a gabbiani e cormorani. Le problematiche maggiori erano sotto il livello del mare. Per evitare l’innalzamento del livello, il bordo dell’involucro doveva essere saldato sul fondo marino ma per consentire alla laguna di vivere era necessario garantire abbondanti scambi di acqua con relativa flora, fauna e nutrienti. La soluzione era posizionare molti tunnel a profondità variabile e senso di corrente gestito da un apposito centro maree che avrebbe regolato il flusso di acqua in entrata ed uscita col doppio compito di alimentare la laguna e di controllare il livello dell’acqua. Conche di notevoli dimensioni, poste alle foci dei fiumi, avrebbero garantito il normale deflusso dell’acqua fluviale con dispositivi per il trattenimento e smaltimento dei rami e rifiuti vari trasportati a valle e pompe idrovore che avrebbero sollevato l’acqua per farla defluire all’esterno dell’involucro tramite aperture ad un’altezza di circa dieci metri sull’attuale livello del mare, sfruttando ai fini energetici anche l’effetto cascata. Il padrino rimase contento delle molte spiegazioni che gli diedi e mi garantì il suo massimo impegno personale per l’aggiudicazione del progetto.

Come al solito la politica ha tempi molto dilatati e la fase di preparazione del bando richiese due lunghi anni cui seguirono gli studi delle commissioni, le valutazioni di impatto ambientale, blocchi dovuti a ricorsi interminabili. Avevo quasi perso le speranze di vedere realizzato il mio o qualsiasi altro progetto. Come avevo detto all’inizio, salvare Venezia non fu facile. Il livello del mare aumentava vertiginosamente, provocando maree sempre più alte e più durature che nell’ultimo ventennio. Con mia sorpresa, da inizio 2028 vidi arrivare ai miei studi padovani diversi politici regionali, nazionali ed europei, rappresentanti delle organizzazioni produttive di Mestre, rappresentanti sindacali, esercenti, albergatori e gli stessi ambientalisti che solo due anni prima avevano fortemente protestato contro il mio progetto fomentando qualche esagitato che mise una bomba sul retro del capannone provocando danni enormi al deposito attrezzi ed al plastico che preferimmo ricostruire daccapo piuttosto che ripararlo, anche perché gli interventi di modifica fatti nel corso del tempo erano stati essi stessi traumatici per il plastico. Volevano tutti la stessa cosa: cambiare tutto perché alla fine non cambiasse niente, ossia stravolgere Venezia e la laguna pur di rimanere a vivere e lavorare a Venezia. Io dicevo con tono drammatico che qualsiasi progetto minimalista avrebbe messo solo una pezza temporanea ad un processo iniziato molto indietro nel tempo e per il quale non c’era nessuna soluzione. L’unica cosa certa era che se si fosse rimasti inerti ancora qualche anno, Venezia sarebbe sparita sott’acqua, le piazze e i primi piani del centro storico erano destinati ad impantanarsi. Tutte le alternative erano sì interventi traumatici per il territorio ma che avrebbero salvato Venezia come simbolo di civiltà e soprattutto avrebbero consentito agli insediamenti umani di rimanere sul proprio territorio altrimenti tutta la popolazione avrebbe dovuto mettere il proprio fagottino sulle spalle e trasferirsi altrove in Italia, nel resto d’Europa o in Australia come si era fatto per quasi tutto il ventesimo secolo.

Salvare Venezia. Racconto – Cap. 3 di 5

PROGETTO

Dopo l’incontro con il misterioso Marte, feci passare più di una settimana. Era uno stratagemma per vedere se Marte fosse diventato impaziente e mi avesse contattato per primo, nonostante gli avessi espressamente detto di aspettare un mio messaggio in codice al suo cellulare. In realtà mi era servito più tempo del previsto perché un lavoro così totalizzante necessitava della massima concentrazione e la massima professionalità, per cui lavorai duro per garantirmi la collaborazione di uno staff tecnico di prim’ordine mentre mi stavo preparando per dare in sub-appalto ad amici architetti tutti i lavori che avevo in sospeso. Era necessario, adesso, verificare le coperture economiche e politiche che dovevano entrambe essere robuste ed affidabili.

Anche se non avevo ancora accettato il lavoro, stavo studiando le ultime soluzioni tecniche sui materiali e ascoltavo i pareri dei massimi esperti sulla laguna e sui cambiamenti climatici e ingegneri per ambiente e territorio, oltre a decine di biologi marini. Più andavo avanti, maggiori erano le informazioni, spesso contrastanti, che ricevevo e maggiore era il tempo che ritenevo necessario per prendere una decisione ponderata. Realizzare uno dei miei massimi sogni era affascinante, farlo sapendo che potesse creare più danni che apportare vantaggi non rientrava nei miei desideri, anzi mi sarei opposto con tutto me stesso se altri ci avessero provato.

Otto giorni dopo il mio primo contatto con Marte, ricevetti una busta anonima contenente un messaggio molto chiaro e diretto: “Abbandona qualsiasi nuovo progetto se non vuoi affondare anche tu come Venezia”. Non c’era nessun riferimento, la carta era perfettamente pulita e senza impronte, non avevo bisogno di portarlo alla polizia; i miei laboratori erano riusciti a verificare da soli. Nel pomeriggio, venni informato che molti dei tecnici ai quali mi ero rivolto avevano ricevuto telefonate in cui venivano messi in guardia dal collaborare con architetti che avrebbero affondato la loro serietà e credibilità. Nelle telefonate venivano utilizzati in maniera sibillina i termini affondato e pericoloso perché facevano intuire che affondamento e pericolo andavano oltre l’aspetto professionale ma riguardavano la sfera personale. Quello fu l’incentivo maggiore che ricevetti per mandare il mio messaggio in codice a Marte.

Da allora ci fu un continuo via vai di persone nella sede del mio studio a Padova. Lo staff che avevo costituito era imponente e gli uffici erano diventati insufficienti. Affittai un intero capannone abbandonato. L’adattamento per renderlo operativo richiese più di un mese di lavori. Utilizzai le strutture dismesse da una mostra per creare i separé che dividevano i settori di sviluppo del progetto e lasciai libero quasi metà capannone per il montaggio del plastico. Un’opera così imponente non poteva certo ben essere rappresentata da un plastico da tavolino che comunque sarebbe stato realizzato per essere facilmente trasportabile in caso di necessità per la presentazione alle commissioni politiche, tecniche e alla stampa. A conti fatti, tra architetti, ingegneri edili, dei materiali, strutturali, ambientali e tutti i ricercatori dei vari rami necessari, compresi gli artisti per i plastici e i geometri da cantiere che volevo facessero parte del team sin dalle fasi progettuali per non incorrere in errori durante le fasi costruttive, eravamo quasi cento persone. Le risorse che avevo recuperato dai miei sponsor e quelle che erano state messe in campo dal personaggio misterioso che io ormai chiamavo il padrino dell’opera, erano insufficienti. Tra affitto e stipendi non volevo rischiare di anticipare molti soldi per un progetto di cui ancora non sapevamo se interessasse realmente a qualcuno. Così forzai la mano con Marte per avere un incontro con il padrino allo scopo di verificare la concretezza della cordata dei finanziatori e soprattutto del procedimento politico per dare attuazione al progetto.

La risposta fu quantomai evasiva. Ebbi l’impressione che l’interesse verso l’opera fosse scemato. Alzai la voce e dissi a Marte che se mi ero imbattuto in quel progetto faraonico era perché mi era stato chiesto espressamente e non per un mio vezzo, perciò, volevo un incontro immediato col padrino. Marte mi confidò che il progetto di bando europeo stava andando avanti ma proprio quello era il problema. Si erano presentati altri progettisti da tutta Europa ed anche dalla Cina con soluzioni alternative: dighe mobili, iniezioni di gas sotterranei per il sollevamento del terreno, sbarramenti nel basso adriatico per impedire l’accesso alle acque ed altre decine di idee bizzarre. Marte mi raccomandava di tener presente che il finanziamento europeo avrebbe riguardato progetti per tutta l’area del Mediterraneo e non c’era solo Venezia da salvare per cui le idee e le aree di provenienza dei progetti erano molto variegate. Chiesi se fosse un modo per indorare la pillola e se avessero già deciso di affidare il progetto ad altri perché in tal caso avevo due sole possibilità: chiudere e mandare tutti a casa o andare avanti autonomamente e sulle due ipotesi non avevo dubbi: se il padrino non avesse voluto più appoggiarmi avrei corso da solo contro tutti. Lo salutai dicendogli che era l’ultima volta che ci sentivamo.

Due ore dopo ricevetti una telefonata che mi preannunciava la visita del padrino. Il padrino sarebbe arrivato, apposta per parlare con me, direttamente da Bruxelles e perciò volle accertarsi che lo aspettassi in capannone. Arrivò con Marte ed altre due persone, una delle quali aveva l’aria di essere una guardia del corpo. Il padrino mi spiegò che la situazione era molto cambiata dalla prima volta che ci eravamo sentiti. L’approvazione del bando era prossima ed anche a Venezia si erano messi il cuore in pace perché non era in discussione il Mose ma la protezione di tutte le città costiere. Pensai che dovesse essere quello il motivo per cui da giorni non ricevevo più minacce. Chi gestiva il Mose stava presentando delle istanze per agganciarsi con nuove paratie utilizzando questa trance di finanziamenti, Il problema vero era che, secondo il padrino, il mio progetto era troppo costoso, poco esportabile in altre situazioni e c’erano dei seri dubbi dal punto di vista ambientale non per l’ambiente marino o per la flora quanto per gli uomini. Il mio progetto poteva creare grossi condizionamenti comportamentali agli uomini.

Salvare Venezia. Racconto – Cap. 2 di 5

CONTATTO

Una mattina di luglio del 2025, ero disteso a prendere il sole. La zona attorno la “rotonda sul mare” di Isola Verde era uno dei pochi tratti di costa veneta in cui era rimasta della sabbia, e non per mera casualità.

Frequentavo quel lido da inizio millennio, quando tutto il litorale era sabbioso. Nel secolo precedente la spiaggia era larga oltre 50 metri, dai primi anni del XXI secolo si era ridotta a poche decine di metri ed in alcuni tratti era quasi completamente sparita. Quel piccolo tratto di mare aveva mantenuto la spiaggia sabbiosa grazie a me.

Io sono un affermato architetto e sono stato sempre considerato un visionario per la grandezza e raffinatezza dei miei progetti. Nonostante la loro maestosità, i prodotti finali sono risultati più economici di quanto non sembrasse ad un occhio distratto, grazie alla sostenibilità energetica ed ambientale che ripagava in poco tempo una porzione dei costi di costruzione e all’attrattiva che l’opera in sé riusciva a suscitare, attraendo turisti.

Una decina di anni prima, al termine di una delle giornate più calde e ventose della stagione, stavo chiacchierando con Mario, il proprietario del lido, raccontandogli, tra uno spritz ed un prosecco, i lavori più sorprendenti che mi erano stati commissionati in varie aree del mondo. Mario, abitualmente, si divertiva ad ascoltare i racconti di come avevo realizzato un mega hotel nel deserto arabico o un centro commerciale sottomarino in Giappone, quel giorno, invece, Mario aveva manifestato la sua preoccupazione per il fatto che ogni anno il mare mangiasse metri di spiaggia e le dighe messe ai lati e di fronte alla costa non fossero state sufficienti ad arginare l’erosione. Mentre lui parlava, avevo iniziato a fare uno schizzo sulla tovaglietta del bar. Vedendo il mio disegno buttato là come per gioco, quell’uomo aveva capito che era necessario tentare il tutto per tutto, se avesse voluto continuare a gestire un lido balneare. L’anno successivo nacque la Rotonda.

Con un’azione di crowdfunding, il gestore della spiaggia era riuscito a convincere i proprietari del residence confinante ad investire nel progetto. Io avevo portato in dote una lista di sponsor con i quali lavoravo da anni e che credevano in me. Il risultato era stato l’innalzamento di un piccolo tratto della spiaggia, facendolo poi proseguire fin dentro il mare attraverso una larga lingua di roccia che si estendeva per circa 70 metri verso il mare aperto. Più larga e più lunga delle dighe fatte negli anni precedenti nel vano tentativo di trattenere la sabbia, la lingua aveva due diramazioni per lato leggermente inclinate verso la linea di costa. Nella parte interna di ciascuna diramazione erano stati realizzati dei terrazzamenti riempiti di sabbia per formare delle piccole spiaggette o solarium sopraelevati. L’ultima terrazza digradava fino al pelo dell’acqua. L’altezza originaria era di oltre cinque metri ma già mezzo metro abbondante era sparito sotto il crescente livello del mare. La lingua si chiudeva con un maestoso piazzale rotondo dal generoso diametro di 30 metri con bar ristorante a semicerchio, tutto vetri. A protezione del manufatto in mezzo al mare, una diga semicircolare posta a circa 15 metri dalla rotonda. Formava un arco di 180 gradi che dalle estremità si prolungava parallelamente alla lingua per 45 metri verso la costa. I prolungamenti avevano il compito di frangere le onde prima che investissero la lingua e i bracci laterali, mentre l’arco aveva anche il compito di essere la base per quattro pale eoliche.

La Rotonda non era solo la sede del bar con annesso solarium, della pista da ballo e del ristorante con i tavolini vista mare protetti dalle vetrate antivento, era un complesso sistema produttivo. La maggior parte di energia veniva generata dal sapiente sfruttamento del continuo movimento delle correnti e delle maree, attraverso turbine montate nei piloni di sostegno alla struttura. Alcuni piloni avevano anche la funzione di trattenere e separare i detriti che arrivavano copiosi dai fiumi, differenziandoli per tipologia. Tutto il tetto del ristorante era costituito da pannelli solari come gran parte delle pareti e dei rivestimenti delle passerelle. La corrente complessiva generata dalla rotonda era sufficiente per le esigenze del lido, del ristorante e parte del complesso residenziale.

Dopo il successo di quella rotonda, era stato richiesto il mio intervento per la costruzione di rotonde simili a Bibione, Jesolo, Sottomarina ed altre famose spiagge rimaste quasi completamente senza sabbia. L’unica che mi rifiutati di effettuare fu quella di Caorle perché la situazione era già troppo compromessa e difatti l’acqua invadeva già quotidianamente le strade sollevando un terribile puzzo di fognature e rendendo inutilizzabili la maggior parte delle piscine di cui erano ricche i condomini di Duna Verde. Era un vero disastro dal punto di vista ambientale ma finora erano tutti preoccupati per il solo impatto economico subito dai proprietari degli immobili che rischiavano di perdere l’intero valore del proprio investimento.

Mentre mi godevo il sole sulla pelle, disteso sul mio lettino, leggendo l’ennesimo libro giallo, in quella che ormai era diventata una spiaggia d’élite, fui avvicinato da un omone alto e robusto, dal viso rosso paonazzo. Inizialmente pensai che fosse accaldato a causa del suo abbigliamento con giacca sopra la camicia bianca e cravatta che poco si addiceva all’afa di quei giorni ma successivamente mi resi conto che lo strano uomo dai capelli ricci rossi ed il viso lentigginoso era in evidente stato di agitazione, sudava da tutte le parti stringendo al petto una borsa di pelle ormai consumata dal tempo. Dopo essersi accertato che fossi la persona giusta, mi chiese di ascoltarlo su un argomento delicatissimo. Mentre parlava si girava da tutte le parti, guardando in lontananza, quasi avesse paura di essere visto o ascoltato di nascosto. Pensai che fosse paranoico.

Mi aveva detto di essere un dipendente del Provveditorato interregionale per le opere pubbliche del Veneto, l’ex magistrato delle acque di Venezia. Mentre era a lavoro e stava archiviando in digitale una marea di documenti relativi ai progetti per la realizzazione del Mose, si era imbattuto sul mio carteggio ed aveva autonomamente approfondito le documentazioni sui rischi di innalzamento delle acque che avevo allegato. Era arrivato alle mie stesse conclusioni con la differenza che nel 2025 si vedevano concretamente i primi effetti di quanto io avevo previsto oltre 30 anni prima. Aveva sottoposto l’argomento all’attenzione di alcuni funzionari in Regione e due giorni dopo aveva ricevuto lettere anonime con minacce di morte oltre ad un richiamo formale dal Provveditore per aver divulgato materiale d’ufficio.

Successivamente, era riuscito ad entrare in contatto con un influente uomo politico che stava lavorando in Commissione Europea alla stesura di bandi per la protezione degli ambienti costieri. Non mi volle rilevare il nome del politico e nemmeno il proprio. Mi disse di chiamare lui Marte, come il messaggero degli dèi e di attendere per il nome del politico poiché questi non voleva compromettersi entrando in contatto con impresari interessati ai lavori. Io ascoltati con pazienza ed attenzione ma soprattutto con molta diffidenza quell’uomo e alla fine gli dissi che il progetto, così come l’avevo pensato 30 anni prima, non sarebbe più stato realizzabile perché i danni provocati alla costa dall’innalzamento del livello del mare comportavano un completo ridisegno della struttura e temevo che ormai sarebbe stato difficile decidere le priorità di cosa salvare e come. Non gli dissi, ma lo tenni come appunto mentale per me, che i materiali e le tecnologie odierne avrebbero abbassato il costo complessivo dell’opera aumentando l’efficienza e la sostenibilità dell’intero sistema. Sottolineai invece, che nessuno a Venezia sembrava realmente interessato a mettere in discussione la validità del Mose, e non lo avrei fatto nemmeno io.

Ritenevo che il Mose fosse stato utile e poteva continuare ad esserlo per qualche anno ancora, ma era largamente insufficiente per una protezione globale della città. Avevo spiegato i miei dubbi sul Mose nella documentazione tecnica inviata più volte in regione, alla Presidenza del Consiglio, al Ministero per i lavori pubblici, al Magistrato per le acque ed infine esposta in un documentario realizzato una decina di anni prima per una TV straniera per la quale avevo preparato un modello in rendering video 3D con gli effetti dell’innalzamento delle acque e la diminuzione di efficacia del Mose entro un paio di decenni. Spiegai a Marte, mi ero rassegnato a chiamarlo con quello strano nomignolo, che evidenziare in quel momento i limiti del Mose ad appena cinque anni dalla sua inaugurazione e dopo due decenni di dibattiti tra favorevoli e contrari, ingenti spese e lavori interminabili, era logico ma assolutamente improponibile.

Marte mi disse che i veneziani stavano cominciando a comprendere che l’illusione del Mose aveva perso ormai il suo fascino e soprattutto, non appena si sarebbe saputo che sarebbe stata l’Europa a mettere i soldi per il salvataggio di Venezia, sarebbero stati tutti d’accordo per nuove rivoluzionarie idee. Marte era inoltre sicuro che il politico col quale aveva parlato, avrebbe appoggiato il mio progetto perché ne era rimasto affascinato.

Io risposi che ormai avevo finito di fare progetti e che mi stavo godendo il mio meritato riposo. Non avrei mai potuto metter in cantiere un lavoro che avrebbe richiesto non meno di 10-15 anni di realizzazione privandomi probabilmente del gusto di vederlo finito. Stavo bluffando. L’offerta mi aveva lusingato moltissimo ed ero già a conoscenza di quel bando europeo in procinto di essere lanciato per salvare molte delle città costiere di tutta Europa che stavano lentamente scomparendo, con gravi danni dal punto di vista ecologico, economico e infine sociale per il pericoloso movimento migratorio dalla costa alle zone più interne delle nazioni e sempre più spesso anche con movimenti transnazionali. Gli europei che migrano? Sembrava la barzelletta del secolo, invece era triste realtà. Marte apparve deluso dalla mia risposta però non demorse, mi chiese se fossi in spiaggia da solo o in compagnia e se avesse potuto offrirmi il pranzo per approfondire alcuni dettagli prima della mia risposta definitiva. Accettai di pranzare con lui a patto che fosse stato mio ospite. Tramite la app del cellulare prenotai al ristorante della Rotonda un tavolo per due.

A tavola parlammo di alcuni dati tecnici relativi alla reale situazione ambientale della laguna e dell’area costiera veneta. Purtroppo, questi dati sulle maree, sulla salinità, sulla penetrazione delle falde salate nell’entroterra, non apparivano sui giornali e i dati pubblicati sui siti ufficiali del Ministero, del Provveditorato e delle Capitanerie di Porto, erano corretti al ribasso per non allarmare eccessivamente la popolazione. Marte continuava a guardarsi intorno ossessionato dal timore di essere spiato, abbassando il volume della voce fino a farlo diventare un sussurro quando faceva le rivelazioni più importanti o scandalose. Per mia indole, avevo nervi saldi e molto autocontrollo ma la sua apprensione era stata contagiosa ed iniziai anche io a esaminare con circospezione tutte le persone vicine a noi anche se non notavo nulla di anormale. Ci lasciammo con l’impegno di risentirci entro un paio di giorni.

Salvare Venezia. Racconto – cap. 1 di 5

PROLOGO

Mi hanno contattato in ritardo, eccessivo ritardo. Io li avevo messi in guardia più di 45 anni fa che le misure che stavano adottando sarebbero state insufficienti. Erano tutti convinti che il Mose avrebbe salvato Venezia. Certo è stato utile, all’inizio. Ha evitato che l’acqua alta raggiungesse spesso piazza San Marco e devastasse monumenti, case e attività commerciali aiutando la più grande fonte di reddito della città: il turismo.

Quello che non avevano capito, all’inizio, era che stavano perdendo tempo. Le maree di 100-110 centimetri erano state una curiosità interessante, quasi un vezzo, sia per i veneziani e sia per i turisti. Per combatterle era sufficiente difendere il centro storico con semplici paratie e passerelle ed andò avanti per anni perchè le sequenze storiche di maree eccezionali si mantenevano rare e venivano benevolmente sopportate dalla popolazione.

L’alluvione del 1966 aveva fatto capire che era necessario un intervento decisivo per la salvaguardia della storica città. Negli anni ’70 vennero messi in atto interventi legislativi per sovvenzionare seri studi ambientali e cercare soluzioni compatibili con il complesso e delicato ambiente lagunare.

Quando, negli anni ‘80 le maree arrivarono a superare pericolosamente i 140 centimetri due, tre volte l’anno, i veneziani iniziarono ad avere paura e chiedere maggiore velocità alla politica per salvaguardare la parte storica della città che soffriva e stava rapidamente svuotandosi di cittadini in trasferimento sulla terraferma. Il futuro di Venezia, non solo come opera d’arte unica nel suo genere, ma come idea di città viva e da vivere stava progressivamente scomparendo.

L’agitato mare di grandi imprese edilizie aveva subodorato che sarebbe stato mosso un notevole quantitativo di denaro per salvare Venezia. Schiere di imprenditori iniziarono a fare visite frequenti ai sindaci, ai presidenti di regione e persino ai patriarchi. Ogni volta erano accompagnati da esperti veri o millantati, del settore delle maree, botanici, etologi, climatologi e decine di ingegneri. L’obiettivo era convincere che non c’era tempo da perdere e che dovevano iniziare subito le opere colossali per evitare l’inconveniente dell’acqua alta a Venezia. Il rischio era perdere turisti e con loro il fiorente settore alberghiero di lusso, della ristorazione e dell’oggettistica, compresi i vetri di Murano ed i centrini di Burano.

Anche io ero andato nel 1995 a proporre un mio progetto che fu scartato immediatamente perché ritenuto eccessivamente costoso, tecnicamente irrealizzabile e orrendo alla vista. Ero preparato ad una simile risposta e per questo non rimasi per niente scoraggiato, convinto della bontà del progetto, della sua economicità nel tempo e della sua sostenibilità ambientale. Semplicemente, la città ed il mondo non erano pronti per quel tipo di progetti e la paura dell’innovazione fece sventolare bandiere di falso interesse di protezione dell’ambiente lagunare arrivando persino a mettere in discussione le basi scientifiche su cui si basava lo studio dell’innalzamento della temperatura terrestre ed il conseguente innalzamento dei mari. Mi sforzai di spiegare, nei lunghi dibattiti che vennero organizzati in quegli anni, che le temperature sarebbero aumentate ad un ritmo due, tre volte superiore alla rosea previsione degli anni 50 e non c’era tempo da perdere con soluzioni tampone, tipo quella del Mose, che non avrebbero risolto il problema. Gli interventi dovevano essere radicali e decisivi. Nonostante le mie argomentazioni, i pareri negativi sull’impatto ambientale raccolti da tutti i progetti, Mose compreso, erano un chiaro segno che la strada per salvare Venezia, i veneziani e l’ambiente floro-faunistico, sarebbe stata lunga e tortuosa.

Nella peggiore delle tradizioni italiane, tanto più lunga e tortuosa era la strada, tanto più remunerativa sarebbe stata l’impresa per chi creava ostacoli burocratici al solo fine di rimuoverli dietro laute ricompense.

E così, dopo il lungo periodo di gestazione delle fasi progettuali, di verifiche ai fini della coesistenza con le specie animali e vegetali della laguna, dopo le proteste dei pescatori e dopo una pioggia torrenziale di euro che aveva riempito le tasche di politici, ingegneri ed esperti vari e dopo aver fatto tacere, anche con minacce, qualsiasi voce contraria, nacque il Mose. Ultimato nel 2020, venne utilizzato con grande successo subito dopo il suo completamento. C’era da affinare la parte operativa per determinare in maniera univoca chi dovesse decidere se e quando innalzare il Mose, su quali fonti di previsione basarsi e in che tempi compiere l’intera operazione. Però la bella notizia era che, dopo anni di polemiche, il Mose funzionava!

Quello che molti non sapevano era che un comitato scientifico, già da cinque anni prima di quell’evento inaugurale, stava valutando il parametro che non era stato tenuto in debita considerazione nella stesura di quasi tutti i progetti, tranne che nel mio. La temperatura della superficie terrestre stava impennandosi raggiungendo valori impensabili solo 30 anni innanzi.

Le ipotesi che circolavano a quel tempo e comunicate al popolo attraverso la divulgazione scientifica di massa, prospettavano un incremento contenuto entro 2 gradi e, per mezzo di decisive modifiche agli stili produttivi e di vita, figlie dell’accordo di Parigi, di fatto inadempiuti, veniva auspicato di rimanere vicini ai 1,5 gradi, alla fine del 2100. Che illusi!

Alcune ricerche sui ghiacciai dell’Antartide, mi avevano illuminato e mi ero tanto appassionato all’argomento che avevo messo assieme i risultati di molte altre ricerche sugli effetti dei gas serra e sulla produzione di CO2, generando, con l’aiuto di climatologi di fama mondiale, un diagramma di previsione dell’innalzamento della temperatura terrestre.

l punto di non ritorno, secondo i miei studi, sarebbe stato intorno al 2050 con un incremento della temperatura di circa 2,5 gradi e la prospettiva di ulteriori aumenti fino a 6 gradi entro il 2100.

Secondo la mia triste previsione, con l’innalzamento delle temperature di circa 2,5 gradi, rispetto al 1900, il livello di scioglimento dei ghiacciai sarebbe stato catastrofico causando l’elevazione del livello medio del mare fino a 5 metri con l’effetto di far sparire enormi tratti di costa. Il Mediterraneo aveva il vantaggio di essere un mare chiuso per cui era destinato ad essere uno degli ultimi mari a risentire del problema dell’innalzamento del livello medio del mare, ma non ne era esente. Certo una bella notizia ma non per tutti. La fragilità di Venezia non le avrebbe consentito di tollerare innalzamenti superiori ai 60 centimetri, mentre la previsione più rosea dava un valore superiore al metro entro il 2050.

Super Carletto Bros

Ci sono persone attorno a noi che non passano inosservate. Hanno qualcosa di particolare, di speciale, che le rendono uniche, pur se apparentemente comuni. Anche nel mio piccolo paesetto ci sono alcuni di questi personaggi e un poco alla volta proverò a descriverli. Non così come sono ma come li immagino, utilizzando fantasia e luoghi comuni per giocare assieme a loro.

Il personaggio di cui vi parlerò oggi è un super eroe. Non di quelli speciali con super poteri ma è super perché fa cose super. Come tutti i super eroi è molto conosciuto, amato per la sua disponibilità e venerato per tutto ciò che non è ma che i suoi idolatri vorrebbero che fosse. Ha un amico inseparabile, quasi un fratello, Richy e alcuni acerrimi nemici da battere.

Lui è Carletto. La sua missione? Difendere gli ammalati e gli anziani. Non è un gioco ma i cellulari, come potentissime consolles da gioco, chiamano SuperCarletto e lo spingono da una parte all’altra del paese. Lui corre in aiuto del popolo dei debilitati per sconfiggere l’assalto degli spossanti dolori reumatici, ipertensioni, astenie, gotte e svariati crudeli virus e batteri approfittatori della povera gente.

Il pericolo è il suo mestiere e sa che non potrà portare nessuno con sè a condividere le fantastiche e rocambolesche avventure che vive quotidianamente. Nei momenti del bisogno, quando si sente stremato dall’arsura che il calore adrenalinico della perigliosa azione gli procura, arriva in suo soccorso il fratellino Ricky che lo rinfresca e rigenera con fortissime pozioni magiche a base di antiche ed amare erbe aromatiche, servite con abbondante ghiaccio e un canestrino di bagigi1 superfortificanti.

Nei giorni tranquilli, soprattutto dopo i tumultuosi fine settimana, Ricky porta il fratellino in palestra. Lo costringe a continue ripetizioni di addominali, piegamenti e sollevamenti accompagnati da lunghe e veloci corse su tappeti rotanti per mantenerlo tonificato, pronto e reattivo nella nuova settimana piena di interventi tesi a contrastare qualsiasi emergenza.

Non è facile la vita del super eroe. Anche loro hanno momenti bui, di sconforto. Mi è capitato di vedere SuperCarletto ritornare alla sua base segreta (l’ufficio in viale Colli Euganei) col volto tirato per la stanchezza dopo aver combattuto contro l’infame nemico Parkinson che si era intrufolato furtivamente nel corpo di un ignaro anziano allo scopo di impossessarsene e generare pericolose onde tremanti capaci di devastare la serenità delle famiglie. SuperCarletto era riuscito, con la sua spada ad iniezione, a debellare i tremori e far tornare il sorriso all’intero nucleo familiare.

Tutto risolto, tutto ok, direte voi. No, non è così semplice. Il morbo dell’influenza era entrato di soppiatto nell’abitazione di un’anziana signora costretta a letto e senza nessuno che se ne prendesse cura. Quando la figlia era tornata a casa l’aveva trovata con la temperatura alle stelle. Bisognava fare subito qualcosa. Chi chiamare in questi casi? Il centro medico era chiuso per la pausa pranzo, al pronto soccorso non avevano tempo da perdere e la guardia medica era impegnata in un intervento dalla parte opposta dell’ULS. L’unico uomo che avrebbe potuto prendere in mano la situazione e risolvere il problema era lui: SuperCarletto.

E’ così, mentre SuperCarletto si accingeva ad aprire la porta della sua base, l’infernale telecomando squillava e lo indirizzava verso l’ennesima nuova avventura. Leggo chiaramente dal suo volto la stanchezza ed il desiderio di una super pozione di Ricky ma lui sa che ha poco tempo e deve raccogliere le residue energie per salvare anche questa persona in difficoltà. Il volto diventa nuovamente fiero e determinato, accantonando stanchezza e stress e conservando per il paziente che riceverà il conforto della sua visita, il sorriso più radioso e rassicurante. SuperCarletto prende il pesante fardello del borsone medico, dal quale fuoriescono porzioni dei suoi superstrumenti: si intravedono le forcelle dello stetoscopio ed il collo del bottiglione di disinfettante. Porta la tracolla del borsone sulla spalla mentre attraversa la strada per raggiungere la Carletto’s-mobile. E’ quello l’attimo in cui i nostri sguardi si incrociano. SuperCarletto intuisce che io sono a conoscenza della sua identità segreta da super-eroe e mi rivolge quelle toccanti parole che non dimenticherò mai: “Maurizio non preoccuparti, salverò anche questa vita”. Vedo la vettura partire decisa e il mio cuore si gonfia di gioia perché so che c’è un’unica certezza in questa parte di mondo: con SuperCarletto gli anziani, i malati e le persone deboli non saranno mai sole.

Note: 1. Arachidi.

Giovinezza con sottofondo pucciniano

Oggi guardavo un gruppo di giovani, tra i 20 ed i 30 anni circa, forse qualcosa in più. Erano seduti al bar a sorbirsi il loro aperitivo, tutti apparentemente felici e ben vestiti. Ho provato ad origliare i discorsi, non per morbosa curiosità di farmi gli affari loro quanto per capire quale fosse il tema centrale degli interessi giovanili. Seguivo il flusso delle parole che rimbalzavano da un tavolo all’altro attraversando lo spazio in cui mi trovavo.

Ho scoperto che gli argomenti erano variegati e diversificati in base al genere. I ragazzi parlavano di sport, di calcio in particolare, ma non solo. Descrivevano le auto o le moto che avevano visto o che sognavano di acquistare. Non mancavano i commenti per la ragazza in minigonna seduta al tavolo in fondo alla sala mentre con l’occhio vispo scrutavano il fondo-schiena della cameriera che attraversava il plateatico con passo veloce. Nei gruppi misti erano frequenti i discorsi sulle serie televisive più in voga con commenti su personaggi ed attori. Chi era uscito da poco dal lavoro aveva sempre qualcosa da ridire sul dispotismo del proprio capo o sull’incapacità del collega. Nei tavoli di sole ragazze c’era sempre un cuore spezzato da consolare, un’amica che aveva tradito la fiducia o un nuovo vestito da descrivere a cui abbinare le scarpe giuste. Immancabile, tra un discorso e l’altro, il commento sul taglio di capelli particolarmente riuscito o decisamente non indovinato da quell’imbranata della parrucchiera.

Mi ha fatto piacere vedere quella spensieratezza e constatare la leggerezza di ogni singolo argomento trattato anche se , devo essere sincero, mi aspettavo anche qualcosa di più profondo, legato a temi attuali, alla politica, alla difesa del territorio, all’impegno sociale, alla cultura o chissà a quali altri temi. L’impressione che ne ho ricavato è stata quella dell’inconsapevolezza.

Quei giovani, nel loro pieno diritto di avere un momento libero e di svago, mi sono sembrati del tutto ignari dell’ effetto che potrebbero avere le loro azioni se mosse da uno scopo ben preciso. Potrebbero addirittura cambiare il mondo o lasciare un segno nella storia. L’enorme potenziale giovanile inconsapevolmente tenuto a freno dalla mondanità.

Io immagino (o forse ricordo) l’animo giovanile in preda a due diverse spinte, due spiriti con caratteri diversi sebbene non necessariamente contrastanti. Vi è lo spirito di leggerezza, sempre alla ricerca della gaiezza o della superficialità per non affannarsi sui problemi e galleggiare nella quotidianità del compito assegnato a tutti noi dalla società moderna: lavorare e consumare. Da questo spirito nasce e si afferma la voglia di divertimento che rende i giovani protagonisti dei pomeriggi con forte aggregazione nei centri cittadini e delle notti brave. Poi c’è lo spirito di indomita lotta contro chi vuole governare le scelte dei giovani, chi li vuole costringere a seguire la massa imponendo loro regole che gli vanno strette. E allora partono le proteste, le contestazioni e i progetti di cambiamento. Una testimonianza, ad esempio, le iniziative di “Friday for future”.

Cercavo uno spunto per riuscire a descrivere questi due diversi spiriti giovanili e non riuscivo a trovarlo fino a quando ho chiamato in mio aiuto sia il grande Maestro Giacomo Puccini con le sue opere Tosca e La Bohème e sia il maestro di comicità Roberto Benigni con il suo monologo televisivo al festival di Sanremo 2011.

Benigni, facendo l’esegesi sull’Inno di Mameli parla del fermento giovanile che ha caratterizzato il periodo risorgimentale. I giovani furono i principali interpreti della ribellione allo straniero, invasore del suolo italico, e sognavano per l’Italia un nuovo futuro non ancora ben delineato tra unitario o federale, tra repubblicano, monarchico o sotto l’egida papale. C’era un solo imperativo: ribellarsi!

Quando Benigni parla di quel gruppo di “giovani, intrisi di gioventù” sicuramente usa un espediente lessicale per far sorridere il pubblico televisivo ma dipinge in maniera forte cosa vuol dire essere giovani. Vuol dire essere intrisi di leggerezza, di ardore, di coraggio, di speranza, di goliardia, di innovazione sociale e molti altri sentimenti tumultuosamente presenti nei cuori giovanili.

Nell’odierno mondo giovanile, limitando il ragionamento all’Italia e qualche altro stato europeo ed escludendo dal ragionamento le lotte di fede politica che hanno più il gusto del tifo calcistico piuttosto che quello di reale movimento di ribellione o protesta avverso mondi politici oppressivi, le spinte idealiste sono relegate ai temi dell’equità sociale, dell’ecologismo, della difesa del pianeta o del superamento della logica del profitto. Di conseguenza sono viste come distanti dalla vita quotidiana e ad appannaggio dei pochi coraggiosi che sfidano i conformismi per sollecitare lo spirito critico nei loro coetanei ma soprattutto nel mondo adulto che gestisce soldi e potere.

Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui i giovani odierni, nonostante mediamente abbiano un livello culturale superiore rispetto a quello dei loro coetanei di uno, due secoli prima, appaiono più superficiali rispetto a questi ultimi e apparentemente tesi solo al divertimento. Non sembrerà quindi irriverente un accostamento allo stile di vita degli artisti in cerca di affermazione nella Parigi dell’800, in cui i giovani poeti, pittori, filosofi, non avevano la consapevolezza di essere protagonisti del cambiamento culturale in atto e, nell’attesa del successo, passavano le serate riempiendo strade e locande di spensierata e spesso irriverente allegria. Si era così creata nell’immaginario collettivo, l’idea di Bohème.

Puccini, con la sua famosissima opera “La Bohème”, ci fa entrare nella quotidianità della vita dei bohémiens che simbolicamente rappresentano tutta la gioventù europea dell’epoca, non solo quella degli artisti. Assieme ai personaggi dell’opera viviamo le multicolori esperienze che vanno dalla difficoltà nel pagare l’affitto da parte dei 4 artisti, al corteggiamento di Rodolfo verso la delicata Mimì, passando dal tarlo della gelosia, sia quello provocato dalla civettuola Musetta e sia sia quello immotivato subito da Mimì e lo spontaneo altruismo che spinge Musetta a privarsi dei suoi preziosi orecchini pur di pagare un medico ed un manicotto per le gelide mani di Mimì. Ed infine la forza dirompente del dolore, sottolineata dai 3 assoli di ottoni che precedono il pieno orchestrale nella straziante chiusura del melodramma.

Puccini con “La Bohème” colloca la tragedia nella vita di questi giovani. Emerge comunque in maniera decisa il carattere primario dei giovani bohémiens e su questo volevo puntare la mia attenzione. E’ lo stesso spirito presente nei discorsi catturati tra i tavoli del bar. Voglia di divertirsi, qualche problema di cuore, attenzione alla mondanità e all’esteriorità.

Nell’altro dramma pucciniano citato, vediamo invece la storia di amore e gelosia tra la cantante Tosca ed il pittore Mario, inserita negli eventi storici del 17 giugno 1800 in cui le alterne sorti della battaglia di Marengo finiscono per pesare nel destino dei due giovani. Tosca è coinvolta, suo malgrado, nei progetti di sovversione e resistenza che alcuni giovani romani stavano intraprendendo per assecondare l’avanzata francese convinti che Napoleone li avrebbe aiutati a sconfiggere gli usurpatori austriaci e a togliere il potere al papato. A contrastare i loro sogni di affrancamento dallo straniero e di libertà per ricostituire la fallita Repubblica Romana, c’è il perfido rappresentante della polizia papalina, Scarpia.

In Tosca vediamo i giovani disposti ad ogni sacrificio per il loro ideale di libertà. Il coraggio e l’ardore che portano all”eroismo, all’audacia, alla lealtà e alla difesa degli ideali, non sono caratteristiche innate, o deliberatamente scelte dai protagonisti ma si presentano come occasioni, attimi in cui la decisione di farsi carico di un problema fa la differenza. Mario non era direttamente coinvolto con la rivolta ma non esita a nascondere il suo amico Cesare, fuggiasco dalle prigioni papali diventando di fatto complice dei rivoltosi. La stessa Tosca, prima di essere travolta dall’occasione propizia che la trasforma in omicida, stava per sacrificare se stessa, pur di far cessare le torture sul suo Mario e per ottenergli il riscatto dalla condanna a morte per fucilazione emessa da Scarpia.

Dal secondo dopoguerra ad oggi, la nostra nazione non ha avuto la necessità di affrontare guerre aperte se non quelle contro la mafia ed il terrorismo, per cui giovani e meno giovani non sono stati costretti ad armarsi e partire contro nessun nemico. Ci sono state le lotte salariali, le lotte per alcuni diritti civili, ma niente di paragonabile al disastro di situazioni belliche o di lotta per la propria libertà ed indipendenza.

Ai giovani raccomando di continuare a vivere la propria gioventù sia con la leggerezza dei bohémiens (aggiungerei con la necessaria passione negli studi e professioni che affrontano) e sia con l’impegno sociale per ciò in cui credono, augurando loro che la nostra società non richieda più quei sacrifici di vite umane che si sono rese necessarie per la conquista dell’indipendenza da stati stranieri e per la liberazione dal nazi-fascismo.

Sono triste

Mi viene difficile parlare della tristezza. Per mia indole, sarei più portato a parlare di felicità o di eventi gioiosi. E anche relativamente alla tristezza troverei più consono parlare di singole vicende particolarmente forti, invasive, con risvolti negativi. Difficilmente mi verrebbe da dire che sono triste.

Recentemente, ho dovuto fare i conti col dolore, quello vero, quello che genera tristezza infinita. E’ capitato un evento che ha fatto da volano ad altri eventi coinvolgendomi profondamente e modificando il mio stato di serenità.

Una persona alla quale ero molto affezionato ha lasciato prematuramente questo mondo. Pur nella certezza, data dalla fede, che lui riceverà una vita nuova, migliore di quella terrena, il dolore del distacco è tangibile. L’ho visto negli occhi delle moltissime persone intervenute al funerale. Sono riuscito a riconoscerlo e distinguerlo, a seconda dei casi, in quello dei semplici costernati da una dipartita così cruenta ed inaspettata ed in quello più radicato nelle persone profondamente segnate dalla ineluttabilità del distacco, dalla consapevolezza di aver toccato con mano il punto di non ritorno nel proprio rapporto di vita con il deceduto.

Già così il dolore aveva modificato in maniera consistente il mio stato d’animo. Si è aggiunto poi il pensiero di questa donna che rientrerà a casa con la consapevolezza di non trovare il marito ad aspettarla o di non dover preparare la cena per lui. Che non potrà raccontargli la sua giornata, chiedergli di portare la macchina dal meccanico o di riparare il rubinetto che perde. Che sa di non potere più pianificare col suo uomo la gita in montagna con i bambini e tutte le scelte che prendevano assieme per la crescita dei loro piccoli. che troverà il letto vuoto, stasera, domani, dopodomani e tutte le altre notti ancora.

Sono intervenuti altri fattori moltiplicatori del dolore e tra questi la constatazione che la disperazione non si limita a far piangere, commossi, l’ingiustificabile perdita ma scava in profondità nell’animo umano portando alla luce tutte le frizioni irrisolte, tutti gli equivoci e le rivalità. Lo vedi, il dolore, che modifica i rapporti tra moglie e suocera, tra fratelli, tra cognati, tra nonni e nipoti. Ogni gesto, ogni frase detta e, ancor di più, ogni frase non detta ma attesa, viene fraintesa, interpretata, gestita come scusa per riversare il proprio dolore sull’altro: Se il dolore non nasce da me, vuol dire che me l’hai creato tu.

Voi direte che sto esagerando, ed è vero, che non sono queste le strade attraverso le quali si ramifica il dolore, ed è falso! Le discussioni col parentado battono sempre sugli stessi argomenti, sugli stessi dubbi e sulla ricerca di una giustificazione al proprio dolore. Provo a spiegare alcune dinamiche.

Il terreno di scontro immediato, quando il dolore è ancora a fior di pelle, soprattutto nei paesi del nostro Sud, è connesso con le spese per le esequie, con la scelta del luogo di inumazione, con la sistemazione finale della tomba tra progetti minimalisti e faraonici, non sempre di buon gusto, che prevedono ad esempio un tempietto a copertura della statua della Madonna, un Gesù disteso sulla pietra e una luce perpetua da vedersi da almeno venti metri di distanza ed infine la divisione delle spese perché, logicamente, tutte le parti in causa cercheranno di evitare l’esoso esborso.

È lì che il dolore entra, scava, dirompe, amplificando all’ennesima potenza ogni piccolo problema e ricercando qualsiasi appiglio per inondare il cuore di ulteriore tristezza. C’è poi la fase in cui il dolore è alla ricerca di risposte che non potranno mai arrivare e si aggrappa a tutti i “se” ed i “ma” che hanno l’unico effetto di aggravare i sensi di colpa sia in chi pone le domande e sia in chi diventa bersaglio di quelle domande che rodono dall’interno l’autostima facendo radicare la tristezza. Le domande, in questi casi, riguardano gli aspetti tipicamente clinici sulla scelta di operare, sul luogo, sui tempi e sulla equipe medica.

Sono tutte decisioni che la povera donna ha dovuto prendere da sola. Qualsiasi scelta avesse fatto, avrebbe avuto uno o più se a cui non si sarebbe potuto dare risposta. Che senso ha rivangare tutti i se, infierire inutilmente sul dolore altrui. Anche quando una persona dovesse essere ben strutturata psicologicamente, lo straziante stato emotivo unito alle insinuazioni, non possono portare ad altro che ad una confusione e sentimenti contrastanti. Le persone alle quali il marito aveva amorevolmente affidato la donna con la quale stava ancora costruendo un futuro e madre dei propri figli, si dimostrano quelle che, accecate anch’esse dal proprio dolore, scardinano dalle fondamenta le poche certezze rimaste. Non resta che abbracciare i figli e non chiedere loro perché non riescono a piangere ma chiedere l’unità familiare e l’amore per costruire insieme un domani che non sarà mai più quello accarezzato come ideale ma sarà quello di una nuova vita quotidiana nella nuova condizione sociale di orfani e vedova.

Sembra che nei nostri contesti sociali le vedove non siano più soggetti deboli, però non è del tutto vero. Le misere pensioni scandalosamente ridotte per gli effetti delle percentuali di reversibilità possono creare seri dubbi sulla sostenibilità familiare. La vedova può diventare preda dei tanti volponi che si propongono con aiuti non del tutto disinteressati perché sperano di entrare nelle sue grazie con l’intenzione di intascare tornaconti sessuali, quando la solitudine si farà per lei più insopportabile.

Io osservo, dialogo e partecipo, per il poco tempo che posso, a questo nuovo ritmo di vita e soffro.

Soffro perché l’unica verità è che non c’è una soluzione, non c’è un reset, non c’è nemmeno il foro per inserire un altro gettone. La corsa dell’uomo è finita e nel suo game-over ha trascinato i dolorosi destini di molte persone. Voi dite che sia poco per dire che sono triste? Questa sensazione mi abbandonerà, prima o poi, però è duro vivere questi giorni in cui la felicità si misura in attimi mentre la tristezza riempie tutti gli antri.