Sarajevo e Kyiv

Era il 5 aprile 1992, poco meno di 30 anni fa, ed io assistevo alla prima guerra “vicina” non solo geograficamente ma anche per il coivolgimento emotivo che aveva comportato per tutti gli europei e per me in maniera particolare. In quella data era iniziato l’assedio di Sarjevo che durerà la bellezza di 1264 giorni (circa 3 anni e mezzo), portando alla morte di oltre 11.000 cittadini e alla distruzione di centinaia di edifici.

Sarajevo 5/04/1992

In teoria noi italiani, dal punto di vista mediatico, dovevamo già essere abituati a vedere scene belliche, dato il precedente della guerra del Golfo. L’Iraq aveva invaso il Kuwait il 2 agosto 1990 annettendolo al proprio territorio e provocando lo sdegno internazionale. La coalizione di 35 Paesi, sotto l’egida ONU, dal 17 gennaio 1991 combattè per liberare il Kuwait, dando inizio alla prima “guerra del golfo” conclusa il 28 febbraio con la rovinosa ritirata degli Iraqeni.

L’unanime sdegno internazionale per l’invasione era stato certamente sostenuto ed amplificato dall’interesse petrolifero.

Gli stati cosiddetti occidentali non ebbero lo stesso moto di immediata solidarietà e coinvolgimento nel caso dello scontro serbo-bosniaco. Questa era una guerra civile, due gruppi etnici che si contrapponevano per il predominio politico nello Stato sorto dalla disgregazione della confederazione jugoslava. Era una guerra tra poveri, non interessava le grandi nazioni perché non c’era in ballo il petrolio come in Kuwait, come non c’erano grandi potenze che avevano fretta di assoggettare politicamente o economicamente quelle povere lande, salvo decretare la definitiva fine dell’influenza della Russia nell’area balcanica.

A me tornano in mente le immagini di Sarajevo. Quella città con i palazzi che erano stati così simili a quelli della mia città natale, resi scheletri di cemento, sventrati ed inceneriti. Mettevo in parallelo la vita quotidiana di tutti noi nell’allegria, con pensieri positivi o immersi in problemi più teorici che pratici e quella di altri esseri umani che dalla loro vita tranquilla erano stati catapultati dall’oggi al domani nell’orrore di una guerra fratricida.

Quarieri popolari di Sarajevo, 1992

A me tornano in mente le file di civili che ammassavano i loro poveri averi nelle auto o su improvvisati carretti o dentro sacchettoni di plastica che avrebbero dovuto contenere quanto necessario per sopravvivere alle intemperie, alla fame, ai ricordi di una vita normale e ai sogni di un futuro migliore.

A me tornano in mente i cecchini che sparavano dalle alture a chiunque si muovesse nella città di Sarajevo.

A me torna in mente che l’intero occidente, in estremo ritardo, si schierò dalla parte dei bosniaci che nel frattempo avevano subito il feroce attacco e la repressione e anche casi di sterminio come testimoniano il caso di Srebrenica nel 1995 e quello dei diversi lager scoperti nel martoriato Paese.

Eppure avevamo detto che dopo la follia nazista non volevamo più assistere a queste scene, che l’Europa si era civilizzata, che non avremmo più avuto guerre in casa nostra e nemmeno campi di concentramento.

A me torna in mente una bambina bosniaca di 5 anni, nativa di Sarajevo che stava combattendo la sua personalissima guerra contro la Leucemia ed era ospitata con la madre ed i fratellini a Padova da associazioni cattoliche. La sua famiglia era musulmana. Suo padre era un militare bosniaco che combatteva contro i cristiani serbi. Sembra paradossale questa storia, laddove ci era stato insegnato che le guerre si combattevano principalmente per motivi religiosi, salvare una vita era una priorità assoluta ed andava al di là di ogni divisione religiosa.

Chi salva una vita salva il mondo intero [cit. Mishnà ebraica e ripreso nel film Schindler’s list]

Questo era l’assurdo ragionamento che si ripeteva nella mia mente e mi attanagliava in quel periodo. Quanta sofferenza e crudeltà in Bosnia per una guerra irragionevole e quanta fatica, quanti sforzi, quanta sofferenza per tenere in vita una bambina di 5 anni che se fosse rimasta a Sarajevo magari sarebbe morta sotto le bombe. Molte famiglie padovane raccoglievano soldi e beni di ogni genere per garantire una buona permanenza ed un buon inserimento a tutta quella famiglia divisa dalla guerra. Con un papà a combattere in patria e una mamma ad accudire i suoi figli in Italia per le indispensabili cure della piccola Almina.

Mio figlio era di un anno più piccolo di lei e giocavano spesso assieme. Correvano nei prati del Ferro di Cavallo, vicino al castello del Catajo, ma spesso si dovevano fermare perché a lei mancavano all’improvviso le energie. Aveva una sua guerra interna. Una vera, giusta guerra contro la malattia che 7 anni dopo se la portò via definitivamente.

Oggi si sta ripetendo in Ucraina quanto abbiamo osservato in Bosnia. La distruzione di abitazioni, ponti, caserme, uccisione di centinaia di uomini (da una parte e dall’altra) e la voglia di sopraffazione che non riesce a lasciare lo spazio al dialogo. Con la nostra umanità messa all’angolo.

In ogni guerra ci sono delle cause e concause che vanno a ricercarsi anche nel passato. L’Ucraina non è stata certamente meno feroce nel tentativo di repressione delle regioni separatiste, soprattutto con la Crimea e le autoproclamate repubbliche filorusse di Donetsk e Luhansk nel Donbass (parte est dell’Ucraina) ma senza la benzina sul fuoco gettata da Putin sin dal 2014, non si sarebbe arrivati a queste scene di violenza che, nonostante tutti i tentativi di sminuire la cosa da parte di Putin, si protrarranno ben oltre l’eventuale caduta di Kyiv.

Avrei voglia di continuare, spostando l’accento sull’autodeterminazione dei popoli ma questo sarà il tema di un prossimo articolo.

Pace, Pace, Pace

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