Demis Caccin – Gli specchi di Dionisio

Opera prima di questo novello autore che sicuramente riuscirà a catturare l’attenzione di molti lettori, Gli specchi di Dionisio è una racolta di racconti che ad una prima lettura lasciano disarmati. Da un lato lo stile letterario ben costruito, con una raffinata ricerca del lessico, che danno l’impressione di leggere un testo di autori classici, dall’altro gli argomenti trattati che non sono di immediata comprensione e che attingono molto da un mondo onirico in cui la realtà non è perfettamente distinguibile dalla fantasia del sogno o delle proiezioni create dalle personali paure.

I racconti, seppure separati ed indipendenti l’uno dall’altro, sono diligentemente raccolti in una cronologia che va dal periodo preistorico in cui i protagonisti vivono nelle caverne, ai giorni nostri in cui l’uomo è immerso nelle continue contraddizioni della nostra modernità. Se vogliamo trovare un comune filo conduttore nei diversi racconti possiamo dire che questo sia la ricerca della conoscenza. Conoscenza del sè, delle reali potenzialità della mente umana, della taumaturgia e dello sciamanismo col fine ultimo della cura.

In nessuno dei racconti la conoscenza o l’erudizione nasce da sè, improvvisamente, ma necessita del ricorso all’ascolto di maestri, saggi, alchimisti, sacerdoti di dottrine religiose o dottrine sociali elevate a dogmi dalla fede dei proseliti. Ai maestri non è possibile trasgredire, pena l’isolamento o la morte. Solo chi ha la pazienza di ascoltare e mettere in pratica a lungo gli insegnamenti può verificare il proprio stato di illunìminazione attraverso alcune prove di iniziazione che portano a diventare a propria volta maestri o semplicemente prendere atto della propria maturità per vivere in maniera cosciente, lenire i dolori del fisico e della psiche a vantaggio delle persone non illuminate del proprio villaggio o cerchia sociale. Si può arrivare a insinuare il dubbio in persone che vivono da anni seguendo la propria prassi religiosa forse non sorretta da una adeguata fede, anche se il costo è quello della propria vita, persa senza rimpianti perché con la convinzione di seguire la propria giusta via.

Credo che l’autore voglia spingere il lettore ad elevare il proprio pensiero e la propria curiosità consigliandogli di non soffermarsi solo sulle cose oggettive, materiali ma di chiedersi se ci sia una dimensione più spirituale da scandagliare. Non dà soluzioni, non suggerisce una religione piuttosto che un’altra ma richiama fortemente l’attenzione alla dimensione trascendentale che da sempre è stata presente nella nostra umanità ma che la materialità del nostro secolo ha fatto passare non solo in secondo piano ma addirittura additata come risibile.

Non è una lettura facile, non è per chi vuole dilettarsi con qualcosa di leggero o che dia sicurezze, bensì è una lettura che attraverso racconti simili a favole gotiche stimola e spinge alla ricerca. Buona ricerca a chi avrà il piacere di incontrare questo libro sul proprio cammino.

Divorzi da VIP e libertà di decisione

La grande storia d’amore tra il il Pupone di Roma e la conduttrice Ilary Blasi è giunta al termine.

Personalmente a me non ne frega assolutamente nulla perchè ritengano siano affari strettamente personali della coppia che in un momento di particolare tensione emotiva deve decidere il meglio per se stessi e per il futuro dei loro figli.

Quello su cui volevo soffermarmi è sugli innumerevoli rapporti coniugali del “popolino” che non si trovano sotto i riflettori dei rotocalchi.

Quante situazioni di crisi matrimoniale sono state affrontate dai coniugi con la libertà di decidere come risolvere la crepa nel vaso del proprio matrimonio?

Quel vaso creato per essere perfetto ed eterno in realtà ha tantissime crepe, piccole o grandi e per essere sempre bello e splendente necessita di continue e pazienti riparazioni. Entrambi i coniugi contribuiscono a creare le fessure del vaso ed entrambi, nella maggior parte dei casi, contribuiscono alla sua riparazione con le colle adesive della pazienza, del perdono ed anche delle rinunce riparando e lucidando il vaso per riportarlo a come era all’origine della vita di coppia e come entrambi avevano sognato di vederlo ininterrottamente fino alla fine dei loro giorni.

Anche fuori dai riflettori però il vaso può rompersi irrimediabilmente e far giungere alla separazione e al divorzio. Succede quando le rinunce, il perdono e la pazienza vengono richieste a senso unico da una delle due parti e l’egocentrismo non consente di vedere l’altro/a impedendosi di tendere al partner il ponte della ricostruzione.

I tradimenti non sono l’unico motivo di separazione ma spesso sono il colpo decisivo al vaso coniugale. Nessuna coppia reagisce con neutralità ad un tradimento. Si crea tensione, rabbia, mancanza di fiducia e persino disprezzo però ci sono coppie che riescono a superare anche queste problematiche. Ogni coppia per motivi e con modalità diverse riesce con pazienza, autonomamente o con l’aiuto di professionisti, a ricostruire il proprio vaso coniugale.

Cosa sta avvenendo alla coppia più famosa d’Italia? Affari loro! Però Francesco i Ilary non hanno la libertà di vivere e risolvere il problema all’interno delle proprie mura domestiche. Alle prime notizie di aria di crisi è partita l’affannosa ricerca da parte dei reporter e paparazzi per documentare al mondo intero le frequentazioni dei due coniugi con altri partner/amanti senza dare alla coppia la possibilità di valutare, digerire e superare questa fase di vita. Il vaso pieno di crepe, viene violentemente martellato dai gestori dei media.

Per la mentalità comune, per gli stereotipi che ci portiamo dietro nel DNA del nostro assetto sociale, i tradimenti non possono essere superati. E su questo, i social media cavalcano la notizia spingendo i due protagonisti a decisioni che esulano dalle lore reali volontà.

Lui non può perdonare lei perché verrebbe meno all’idea del maschio padrone della vita della propria donna. Se Totti accettasse di continuare la relazione con la moglie, sarebbe immancabilmente tacciato di essere “cornuto e contento” con la conseguente derisione sociale. Un grande calciatore, un uomo virile, un combattente come “er pupo de Roma” non può accettare una tale vergogna, meglio la separazione, che tanto lo fanno tutti ed è socialmente più accettabile delle corna sopportate in silenzio.

Lei non può perdonare lui, perchè deve tutelare l’immagine della donna emancipata. Se Ilary accettasse di prolungare la relazione col marito, sarebbe immancabilmente tacciata di aver “tradito l’autodeterminazione femminile” perché si sottometterebbe all’idea che le marachelle degli uomini devono essere sopportate dalle donne per il bene della famiglia. Le donne sarebbero sempre relegate al ruolo di coloro che devono sopportare tutto soffrendo in silenzio. Meglio la separazione, socialmente un dato di fatto. L’immagine di showgirl e donna emancipata ne trarrebbe maggiori benefici.

Infine, la mia convinzione è che la problematica della coppia più romantica e famosa d’Italia, dovrebbe essere vissuta solo all’interno della loro famiglia e non sui rotocalchi. Le reciproche frequentazioni con altri partner, devono avere il peso che loro decideranno di dargli, non quello stabilito dai direttori dei giornali. Tanto anche la scappatella temporanea è una cosa socialmente accettabile, oggi.

Quello che non è accettabile è che si spinga una coppia famosa all’infelicità solo per rendere il fallimento nella custodia del vaso coniugale di milioni di altre coppie, socialmente più accettabile.

I La rappresentante di Lista ed il loro Ciao Ciao

Questo gruppo musicale ha un qualcosa di strano, di anomalo. Sfugge a qualsiasi definizione e non è nemmeno semplice capire se piacciono o non piacciono, di sicuro attirano, catalizzano l’attenzione ma soprattutto comunicano. Comunicano con l’esperienza acquisita attraverso il loro trascorso teatrale che conferisce la capacità di stare in scena proponendo stranezze in musica, parole ed immagini.

La prima stranezza sta nel singolare del nome del gruppo, pur trattandosi di un gruppo e quindi di un plurale. Colpisce pure che venga messo l’accento sul femminile. Allora molti si pongono la domanda se non sia più corretto parlare di una cantante, Veronica Lucchesi, con il tastierista al seguito, Dario Mangiaracina, piuttosto che di un duo musicale. Invece lo spessore musicale e l’esperienza artisitica appartiene ad entrambi e la confusione sul genere è propedeutica per sorvolare sull’importanza attribuita genere per soffermarsi piuttosto sulla sostanza artistica.

La seconda stranezza è che non si tratta solo di un duo ma altri artisti ruotano attorno a loro come accompagnatori e coadiuvatori nella scrittura di testi e musica. Ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte ad una accademia artistica che coinvolge nei propri progetti i performer che riescono a mettersi in sintonia con loro e che danno il contributo per reciproca crescita professionale ed artistica.

La terza stranezza è che durante tutta la loro carriera hanno rifuggito qualsiasi classificazione specifica definendosi come gruppo queer-pop dove l’aggettivo queer trascende dalla sua origine ed è inteso proprio come eccentrico, strambo ed appunto sfuggevole, con l’intento di cambiare continuamente.

La quarta stranezza riguarda il fatto che un gruppo così ironico ed autoironico sia altrettanto concreto sulle problematiche sociali come testimonia il libro scritto a quattro mani da Veronica e Dario, Maimamma e dal quale è indirettamente tratto il loro ultimo successo musicale.

Tralasciando tutto il percoso artistico che ha portato il duo sul palco di Sanremo nel 2022, per il secondo anno consecutivo, mi soffermo sul brano Ciao, ciao che a sua volta è un condensato di contraddizioni e stranezze.

Il pezzo è trainato dalla musicalità a metà tra i ballabili degli anni 70 e le sonorità urbans e tribali dei giorni nostri. La ripetitività delle parole lo rende facile da memorizzare, con un destino da tormentone ed infatti lo cantiamo tutti. Ma qualcuno ha ascoltato veramente le parole? Mentre cantiamo il ritornello a cosa stiamo veramente dicendo ciao? Diciamo ciao alla nostra Terra che è sull’orlo di una catastrofe e per la quale non sappiamo cosa salvare per prima, a chi dare la nostra priorità. Vedendo il nostro destino segnato sulla terrra che sparirà l’unica cosa che ci resta è quella di scambiarci il saluto con tutto il nostro corpo. Uno scambio di fisicità dove è l’amore tra le entità umane che emerge (che paradosso: lo scambio fisico salva l’umanità mentre per salvarci dal virus abbiamo ripudiato gli abbracci come se fossero essi stessi la causa della pandemia).

Tutto è destinato a finire per sempre però c’è una speranza e siamo noi, noi che possiamo tentare di opporci alla fine del mondo diventando protagonisti e riprendendoci la capacità di fare le scelte più opportune contro il cambiamento climatico e soprattutto ritornando ad amarci come genere umano con tutto il corpo ciao, ciao.

Invece, proprio nell’approssimarsi della fine, l’egoismo fa peggiorare la situazione accentuando la crisi attraverso l’esasperazione dei conflitti fino ad arrivare alla guerra mondiale. E in questo caso c’è veramente poco da fare solo dirsi un ultimo ciao ciao velato di tristezza e di rammarico per tutto ciò che poteva essere e non sarà più.

Ecco svelato il messaggio: con le mani, con i piedi, con tutto il corpo diciamo ciao ciao. Cantiamo, balliamo, ridiamo, scherziamo, amiamo ma dobbiamo restare concentrati sulle cose che possono salvare la vita sulla terra.

Un tempo si diceva “sono solo canzonette” ed invece sono inni pregni di messaggi, basta saperli ascoltare. Ciao, ciao.

Sarajevo e Kyiv

Era il 5 aprile 1992, poco meno di 30 anni fa, ed io assistevo alla prima guerra “vicina” non solo geograficamente ma anche per il coivolgimento emotivo che aveva comportato per tutti gli europei e per me in maniera particolare. In quella data era iniziato l’assedio di Sarjevo che durerà la bellezza di 1264 giorni (circa 3 anni e mezzo), portando alla morte di oltre 11.000 cittadini e alla distruzione di centinaia di edifici.

Sarajevo 5/04/1992

In teoria noi italiani, dal punto di vista mediatico, dovevamo già essere abituati a vedere scene belliche, dato il precedente della guerra del Golfo. L’Iraq aveva invaso il Kuwait il 2 agosto 1990 annettendolo al proprio territorio e provocando lo sdegno internazionale. La coalizione di 35 Paesi, sotto l’egida ONU, dal 17 gennaio 1991 combattè per liberare il Kuwait, dando inizio alla prima “guerra del golfo” conclusa il 28 febbraio con la rovinosa ritirata degli Iraqeni.

L’unanime sdegno internazionale per l’invasione era stato certamente sostenuto ed amplificato dall’interesse petrolifero.

Gli stati cosiddetti occidentali non ebbero lo stesso moto di immediata solidarietà e coinvolgimento nel caso dello scontro serbo-bosniaco. Questa era una guerra civile, due gruppi etnici che si contrapponevano per il predominio politico nello Stato sorto dalla disgregazione della confederazione jugoslava. Era una guerra tra poveri, non interessava le grandi nazioni perché non c’era in ballo il petrolio come in Kuwait, come non c’erano grandi potenze che avevano fretta di assoggettare politicamente o economicamente quelle povere lande, salvo decretare la definitiva fine dell’influenza della Russia nell’area balcanica.

A me tornano in mente le immagini di Sarajevo. Quella città con i palazzi che erano stati così simili a quelli della mia città natale, resi scheletri di cemento, sventrati ed inceneriti. Mettevo in parallelo la vita quotidiana di tutti noi nell’allegria, con pensieri positivi o immersi in problemi più teorici che pratici e quella di altri esseri umani che dalla loro vita tranquilla erano stati catapultati dall’oggi al domani nell’orrore di una guerra fratricida.

Quarieri popolari di Sarajevo, 1992

A me tornano in mente le file di civili che ammassavano i loro poveri averi nelle auto o su improvvisati carretti o dentro sacchettoni di plastica che avrebbero dovuto contenere quanto necessario per sopravvivere alle intemperie, alla fame, ai ricordi di una vita normale e ai sogni di un futuro migliore.

A me tornano in mente i cecchini che sparavano dalle alture a chiunque si muovesse nella città di Sarajevo.

A me torna in mente che l’intero occidente, in estremo ritardo, si schierò dalla parte dei bosniaci che nel frattempo avevano subito il feroce attacco e la repressione e anche casi di sterminio come testimoniano il caso di Srebrenica nel 1995 e quello dei diversi lager scoperti nel martoriato Paese.

Eppure avevamo detto che dopo la follia nazista non volevamo più assistere a queste scene, che l’Europa si era civilizzata, che non avremmo più avuto guerre in casa nostra e nemmeno campi di concentramento.

A me torna in mente una bambina bosniaca di 5 anni, nativa di Sarajevo che stava combattendo la sua personalissima guerra contro la Leucemia ed era ospitata con la madre ed i fratellini a Padova da associazioni cattoliche. La sua famiglia era musulmana. Suo padre era un militare bosniaco che combatteva contro i cristiani serbi. Sembra paradossale questa storia, laddove ci era stato insegnato che le guerre si combattevano principalmente per motivi religiosi, salvare una vita era una priorità assoluta ed andava al di là di ogni divisione religiosa.

Chi salva una vita salva il mondo intero [cit. Mishnà ebraica e ripreso nel film Schindler’s list]

Questo era l’assurdo ragionamento che si ripeteva nella mia mente e mi attanagliava in quel periodo. Quanta sofferenza e crudeltà in Bosnia per una guerra irragionevole e quanta fatica, quanti sforzi, quanta sofferenza per tenere in vita una bambina di 5 anni che se fosse rimasta a Sarajevo magari sarebbe morta sotto le bombe. Molte famiglie padovane raccoglievano soldi e beni di ogni genere per garantire una buona permanenza ed un buon inserimento a tutta quella famiglia divisa dalla guerra. Con un papà a combattere in patria e una mamma ad accudire i suoi figli in Italia per le indispensabili cure della piccola Almina.

Mio figlio era di un anno più piccolo di lei e giocavano spesso assieme. Correvano nei prati del Ferro di Cavallo, vicino al castello del Catajo, ma spesso si dovevano fermare perché a lei mancavano all’improvviso le energie. Aveva una sua guerra interna. Una vera, giusta guerra contro la malattia che 7 anni dopo se la portò via definitivamente.

Oggi si sta ripetendo in Ucraina quanto abbiamo osservato in Bosnia. La distruzione di abitazioni, ponti, caserme, uccisione di centinaia di uomini (da una parte e dall’altra) e la voglia di sopraffazione che non riesce a lasciare lo spazio al dialogo. Con la nostra umanità messa all’angolo.

In ogni guerra ci sono delle cause e concause che vanno a ricercarsi anche nel passato. L’Ucraina non è stata certamente meno feroce nel tentativo di repressione delle regioni separatiste, soprattutto con la Crimea e le autoproclamate repubbliche filorusse di Donetsk e Luhansk nel Donbass (parte est dell’Ucraina) ma senza la benzina sul fuoco gettata da Putin sin dal 2014, non si sarebbe arrivati a queste scene di violenza che, nonostante tutti i tentativi di sminuire la cosa da parte di Putin, si protrarranno ben oltre l’eventuale caduta di Kyiv.

Avrei voglia di continuare, spostando l’accento sull’autodeterminazione dei popoli ma questo sarà il tema di un prossimo articolo.

Pace, Pace, Pace

Fine stagione

Andare al mare a metà settembre, quando le giornate cominciano ad essere troppo corte, le temperature dell’aria hanno escursioni più ampie con la forbice che si allarga verso il basso, quando molti ombrelloni restano chiusi e non si vendono le belle e giovani mamme formose con i loro bambini schiamazzanti che fino a qualche giorno prima allietavano gli occhi e torturavano le orecchie e oggi, invece, sono immerse nel caotico mondo della scuola con i problemi di grembiulini e quaderni nuovi e merende e nuovi impegni sportivi dei loro pargoli, quando la lista dei gelati del chiosco in spiaggia ha più X delle risposte al test di assunzione in un concorso pubblico, quando la torretta del bagnino è vuota ed il pattino è parcheggiato dietro le cabine, quando la brezza marina invece di allietare punge, proprio in queste condizioni, essere in spiaggia invece che in ufficio è semplicemente FANTASTICO.

Evoluzione del modello di proprietà.

L’altro giorno, ho sentito un ascoltatore alla radio che comunicava con grande enfasi e soddisfazione di aver venduto casa per vivere in affitto e che, dopo aver compiuto quel passo, si sentiva più felice. Sosteneva, tra l’altro, di non credere più nella proprietà privata. Quella semplice dichiarazione mi ha spinto a fare una serie di ricerche e a portare alla luce i ragionamenti che già covavano in me da lungo tempo. Provo a renderli fruibili a tutti, anche se mi rendo conto che l’argomento non è affatto semplice.

Il concetto di proprietà, soprattutto di proprietà immobiliare è sotto attacco da oltre un secolo, cioè da quando la necessità di superare gli squilibri sociali che c’erano tra il ceto popolare ed i ceti nobiliari a cui si aggiungevano i proprietari terrieri e i nuovi ricchi nati dalla continua ascesa delle attività industriali, aveva portato alle rivoluzioni proletarie sospinte dal vento della nascente ideologia comunista.

Eppure il concetto di proprietà, nel mondo occidentate, ha resistito agli assalti del comunismo e la proprietà privata, negli stati ad orientamento comunista, non è mai veramente sparita e oggi è in fase di rinascita pur sotto forme diverse. La continua evoluzione del concetto di proprietà privata o del suo utilizzo, ha ridotto, negli ultimi anni, il forte appeal che questa suscitava nei confronti della cosiddetta fascia media, di quelli che non sono né ricchi ma nemmeno possono considerarsi poveri avendo fonti di reddito dovute al piccolo commercio, piccolo artigianato o dipendenti a reddito fisso.

In questo quadro, è difficile pensare ad una omogenea diffusione della proprietà privata. Non solo dell’immobile, la prima casa, ma anche di beni di consumo di alto valore tipo l’automobile, la moto, gli elettrodomestici, il cellulare ed altri. Per questi prodotti sono sorti i finanziamenti. In origine venivano utilizzati solo per i grossi acquisti e successivamente hanno proliferato nel campo del finanziamento al consumo in quasi tutti i settori commerciali con possibilità diversificate di rateizzazione degli importi e della durata.

Nel campo automobilistico, diventando insostenibili i prestiti, si è fatto un recente ulteriore passo avanti e sono nati i noleggi di lunga durata che consentono, anche ai privati cittadini, l’utilizzo di automobili per un periodo, generalmente di 3 anni, prima di decidere se rendere indietro il mezzo, prenderne un altro nuovo sempre a noleggio o detenere il mezzo continuando a pagare la quota rimanente (in genere tramite altro finanziamento). Se analizziamo bene, siamo già alla rinuncia alla proprietà privata, quantomeno rinuncia all’idea del possesso. Tale rinuncia è sostenuta da alcuni fattori: l’auto viene vista come una spesa “a perdere” poiché si svaluta molto velocemente, inoltre con la formula del noleggio di lunga durata, c’è il vantaggio che la maggior parte dei contratti prevede, nei primi 3 anni, l’azzeraemnto di tutte le spese di manutenzione e assicurazione per cui non si avranno altre spese al di fuori del carburante. Ecco che la rinuncia alla proprietà viene vista come una forma di risparmio.

Precisazione: la situazione enunciata corrisponde al vero solo se l’acquirente era già orientato alla detenzione del mezzo per un periodo compreso tra i 3 ed i 5 anni ed è quindi riferita ad una fascia di reddito medio-superiore. In genere un reddito medio punta ad ammortizzare il costo di acquisto tra i 5 e gli 8 anni. Redditi inferiori tendono ad allungare la vita del proprio automezzo ben oltre il decimo anno.

Nel caso di beni immobili, siano essi terreni, prime case o abitazioni di villeggiatura, è più difficile immettere il pensiero della convenienza dell’affitto perché le leggi del mercato, per decenni, hanno presentato i beni immobiliari come forme di investimento poichè il cosiddetto prezzo del mattone che comprende anche il costo dei terreni edificabili, è stato artificiosamente fatto aumentare, senza alcuna reale corrispondenza al valore sia del terreno e sia della costruzione.

Le abitazioni, invece, hanno un decadimento nel tempo e necessitano di elevati costi di manutenzione. Nonostante tutto, vengono vendute dopo qualche anno di utilizzo, ad un prezzo superiore rispetto a quello del loro primo acquisto. Il metodo utilizzato dalle società di compravendita, per giustificare l’aumento si basa sul prezzo delle nuove abitazioni nella stessa zona residenziale che in genere è ogni anno più alto. E’ un assurdo! E’ come se io provassi a vendere la mia Multipla di 12 anni a 15.000 Euro o più perché quello è il costo minimo di un’auto nuova, incentivi compresi.

Dopo la crisi del 2008, la bolla speculativa sugli immobili ha avuto un leggero ridimensionamento, ancora insufficiente, secondo me, con una discesa costante ma non marcata fino al 2018, quando si è avuta la stabilizzazione dei prezzi ed il ritorno ad una moderata crescita. Perché la crescita è stata meno pronunciata rispetto a quanto si aspettavano ed auspicavano gli addetti del settore?

La frammentarietà e precarietà del mondo del lavoro, non consente alla maggior parte dei lavoratori una serena programmazione degli acquisti di beni di alto valore e soprattutto degli immobili. Le banche, che dovrebbero facilitare queste operazioni, cercano garanzie che solo un dipendente con parecchi anni di servizio, di ditte solide o del settore pubblico, può riuscire a dare. Da questo deriva un primo fattore di rallentamento nell’economia edilizia. Se ne aggiunge un altro. I comuni, nel fare i propri piani regolatori, oggi stanno molto più attenti che in passato a mantenere non edificabili vaste zone del territorio per rallentare il tasso di crescita delle aree cementificate del nostro Paese. Come ultimo ed importante fattore, bisogna considerare i continui interventi legislativi per il recupero del patrimonio edilizio, che a detta di qualcuno servono solo per far emergere i pagamenti in nero, in realtà hanno la funzione di rallentare la richiesta di nuove abitazioni puntando al recupero, all’efficientamento energetico, alla messa in sicurezza nel campo sismico, messa a norma di impianti elettrici, idraulici e del gas di tutte le vecchie abitazioni che, come dicevo prima, dopo qualche decennio dalla loro costruzione hanno necessità di costosi interventi per cui, ribadisco, non se ne capisce la ragione del continuo e galoppante aumento del valore.

Un altro fattore, a mio avviso, sta facendo da freno al settore edilizio. Nelle nostre città, soprattutto in quelle ad elevata densità abitativa, ci sono interi quartieri che andrebbero ridisegnati per rendere più moderne ed efficienti le zone residenziali. Tale operazione richiederebbe l’abbattimento di un gran numero di palazzi degli anni 50-60-70-80, oggi insicuri, insalubri e spesso nati nell’emergenza abitativa dovuta allo spopolamento delle campagne a favore delle città che sono appunto cresciute in maniera disordinata. La poca lungimiranza delle amministrazioni locali, sospinte da tale necessità ed urgenza, ha creato quartieri abitativi, anche in zone centrali, privi di parcheggi e con un crescente anonimato edilizio che allontana l’abitudine al gusto dell’ordine e della bellezza. L’eccessiva vicinanza dei palazzoni ha inesorabilmente ridotto gli spazi per parchi e spazi liberi di gioco all’aperto. A questo si aggiungono interi quartieri che hanno strade strettissime ed abitazioni fatiscenti di età superiore ad uno, due secoli ma non di valore artistico, architettonico o di memoria per modelli costruttivi testimoni di epoche particolari.

Cosa impedisce la razionalizzazione delle nostre città? L’eccesso di parcellizzazione della proprietà. Provate a pensare ad un condominio di 5 piani, con 3 appartamenti per piano, che dovesse presentare problematiche tali da rendere antieconomico qualsiasi tipo di intervento. Chi mai riuscirebe a convincere tutti i 15 proprietari che sarebbe necessario abbandonare la casa che hanno finito di pagare da pochi anni per abbatterla e ricostruirla? E siamo sicuri che tutti e 15 sarebbero invece propensi a mettere mano al portafogli per i necessari interventi?

Eppure non sono pochi i condomini italiani che necessitano di intervento antisismico, di sigillatura da infiltrazioni di acqua da falde sotterranee, di modifiche all’impianto del metano fuori norma, della sostituzione delle vecchie caldaie a gasolio con nuove forme energetiche e conseguente dismissione o inertizzazione delle cisterne. Non parliamo dell’impianto elettrico perchè doveva essere messo a norma già qualche decina di anni fa, anche se non sempre ciò corrisponde al vero.

Molto spesso tali condomini sono posizionati uno di fianco all’altro amplificando le problematiche non solo dell’abitazione in se stessa ma di tutta la vita di quartiere con file interminabili di auto parcheggiate per strada, spesso oggetto di vandalismi, traffico impazzito, mancanza di piste ciclabili e marciapiedi di dimensioni ridotte.

La soluzione più semplice sarebbe l’abbattimento dell’intero gruppo di condomini e successiva ricostruzione secondo moderne caratteristiche architettoniche che comprendano impiantistica efficiente e a norma, adeguato numero di autorimesse e posti auto coperti, spazi aperti per aree verdi ad uso sociale, alberatura delle strade, ridimensionamento delle sedi stradali in base alle reali necessità, piste o strade ciclabili e quanto altro potrebbe essere utile per ridurre la maggior parte dei rischi compreso quello alluvionale.

Ci sono città in cui sono stati tombinati fiumi e canali di deflusso delle acque piovane e i danni sono stati ingenti. Basti ricordare le due alluvioni di Genova del 2011 e 2014, quella di Sarno, quella delle cinque terre con gli ingenti danni a Vernazza, quella di Refrontolo, quelle del Biellese e non proseguo perché riportare alla memoria in poco tempo tutte quelle distruzioni e morti è già molto doloroso. In queste città si dovrebbe rivedere tutta la gestione del territorio e recuperare il dissesto idrogeologico perpetrato per anni. Non di rado, per la riapertura dei canali di gronda o dei fiumi, l’unico sistema sarebbe l’abbattimento di file di condomini.

Per realizzare questa opera di ridisegno delle aree urbane è necessario che un Ente pubblico o privato possa detenere la proprietà degli immobili al fine di condurre l’opera di abbattimento e ricostruzione, secondo criteri innovativi.

E’ questo il punto centrale. La spasmodica ricerca della proprietà ha di fatto parcellizzato il possesso del bene, con l’un unico effetto di rendere impossibile la programmazione ed attuazione dell’ammodernamento delle città per farle crescere in maniera armonica col territorio, con criteri urbanistici moderni e che siano rispettosi sia delle esigenze abitative e di vita quotidiana e sia dell’ambiente.

Il riutilizzo degli spazi già edificati, contribuirebbe alla riduzione dei prezzi dei terreni perché ne ridurrebbe la richiesta, eviterebbe l’aumento della cementificazione nelle aree periferiche delle nostre città e garantirebbe un mercato degli affitti più equo e sostenibile. Lo sviluppo verticale darebbe anche un nuovo impulso all’architettura italiana che per esprimersi deve ricorrere alle grandi commesse straniere, perché in Patria non c’è un mercato edilizio di alta qualità.

L’edilizia di alta qualità è generalmente legata a concetti di bellezza e modernità e porterebbe con sè il gusto del bello, contribuendo alla modificazione di alcuni comportamenti scorretti, seppur pur non sempre consapevoli, degli abitanti di grandi città e piccoli centri in cui la crescita caotica o lo stato di abbandono hanno portato le persone a trascurare l’ordine, la pulizia e la serenità dei quartieri.

Ho tralasciato un fattore importante. Essere proprietari di un’abitazione è spesso un fatto puramente illusorio. La ricerca spasmodica della proprietà ha fatto impiegare enormi risorse economiche delle famiglie italiane che si sono accollate mutui ipotecari della durata di due/tre decenni favorendo solo i costruttori e le banche che sono diventati di fatto i proprietari del risparmio degli italiani.

In definitiva, sia per motivi economici e sia per motivi ecologici sarebbe meglio incentivare questa modificazione del pensiero che ha messo nel possesso della casa di abitazione quasi un punto di arrivo per potersi considerare una famiglia completa e passare al modello di affitti dinamici, quasi un noleggio a lungo termine, con prezzi abitativi più bassi ed il costante riutilizzo dei terreni per il miglioramento qualitativo delle città. Lo Stato risparmierebbe i soldi degli incentivi che potrebbero essere utilizzati per il recupero edilizio di costruzioni importanti dal punto di vista architettonico e testimonianza culturale del nostro passato.

Zona rossa e Didattica a Distanza

Mantenere sempre l’attenzione sul Coronavirus, stanca anche i lettori più agguerriti e soprattutto contribuisce ad aumentare la sensazione di stress da oppressione per l’oggettiva riduzione degli spazi di libertà personale e per la sensazione di rischio permanente.

Non voglio entrare nei meandri delle discussioni filosofiche e politiche sulla correttezza o meno delle soluzioni proposte dai vari Stati che hanno individuato nella riduzione degli spostamenti delle persone, nella chiusura delle attività commerciali e sociali e nel distanziamento di sicurezza, le armi migliori per rallentare la diffusione del virus. Gli argomenti che mi interessa mettere a fuoco riguardano la situazione italiana e sono: 1) la chiusura dell’attività scolastica in presenza in ogni ordine e grado di istruzione nelle cosiddette zone rosse; 2) il diritto alla disconnessione.

Quando dal pomeriggio di venerdì 12 marzo 2021, girava la voce che anche la regione Veneto sarebbe passata in zona rossa dal lunedì successivo, nelle case della maggior parte degli insegnanti sono iniziate le riunioni con i vari sistemi di videochiamata, compreso l’utilizzo delle stesse piattaforme scolastiche. All’inizio erano solo chiamate per mettersi d’accordo su cosa e come strutturare l’eventuale lavoro con gli alunni, dal lunedì. Le linee di indirizzo di Dirigenti e Presidi erano perlopiù nebulose anche se preparate con largo anticipo, per cui gli obiettivi principali erano quelli di vedere cosa, praticamente, si sarebbe potuto fare. Gli insegnanti più vicini ai gruppi dirigenti cercavano di ricevere le prime istruzioni ufficiose. Immagino anche i presidi che avranno sicuramente avuto un intenso scambio di informazioni, tra di loro e con gli uffici scolastici regionali, per uniformare i comportamenti e massimizzare i frutti del lavoro degli insegnati.

Già dal giorno successivo le riunioni virtuali erano diventate più frequenti ed intense occupando quasi l’intera giornata del sabato fino a tarda sera. Io, marito di una maestra, con i miei familiari facciamo da spettatori e non riusciamo ad entrare nel merito delle tante riunioni ma, personalmente, ho colto che c’erano problemi sulla disponibilità delle piattaforme, sul numero di ore massime che si potevano fare in didattica sincrona (in diretta insegnati e alunni contemporaneamente presenti) e asincrona (lezione registrata dall’insegnate, caricata sulla piattaforma informatica e fruita dagli alunni quando ritenuto opportuno), sulle modalità di assistenza agli alunni con difficoltà da quelle meno impattanti a quelle di maggiore disagio, sulla sicurezza informatica e la tutela della privacy per i ragazzi e per gli insegnati. Particolarmente spinoso, l’argomento dell’utilizzo di software di larga diffusione ma non strettamente dedicati alla didattica, per evitare la saturazione delle piattaforme nate per un utilizzo di supporto agli insegnanti sia per la registrazione e rendicontazione dell’attività scolastica e sia per i rapporti con i genitori. Non era prevista la mole di ore di registrazione e di attività on-line per l’insegnamento per le quali sono risultate sottodimensionate, nel numero di accessi, nella larghezza di banda e nei tempi di risposta, rispetto alla reale necessità di utilizzo in caso di DAD.

Non ho seguito tutte le riunioni del venerdì, sabato e domenica che si sono ripetute con interlocutori spesso diversi in cui gli argomenti venivano ripetuti perchè andavano ad affinarsi gli scenari verso cui la scuola stava andando incontro ma l’impressione che ho avuto è stata quella di un gruppo di insegnanti che avvertivano la gravità del lavoro che avrebbero dovuto affrontare e che non volevano farsi trovare impreparati. Sarà amor proprio, sarà attaccamento al dovere, sarà l’interesse nel futuro dei bambini che sono affidati a loro, fatto sta che le ore di lavoro sviluppate e non riconosciute, in questa situazione emergenziale sono state veramente tante. Se da un lato trovo giustificabile spingere sull’acceleratore per superare un ostacolo imprevisto, non si può pensare che l’efficienza dell’apparato scolastico, così come di quello sanitario, possa durare a lungo quando da oltre un anno i ritmi lavorativi sono di molto superiori a quelli normali, senza pause e, tra l’altro, senza alcuna corrispondenza dal punto di vista retributivo. Di fatto la maggior parte delle ore di lavoro possono tranquillamente essere considerate attività di volontariato che non verrà mai riconosciuto e trascritto nemmeno a livello curricolare (importante per gli insegnanti non di ruolo e per quelli che aspirano a trasferire la sede di insegnamento).

Da anni mi batto per il diritto alla disconnessione, cioè per il diritto alla separazione netta tra quella che è l’attività lavorativa con tutto il suo carico di pensieri e attività da svolgere e l’attività familiare o di svago in cui il lavoro non dovrebbe entrare se non in casi di reale urgenza. L’unico riferimento normativo, in Italia, è la legge 81/2017 sul lavoro agile che prevede espressamente che: «nel rispetto degli obiettivi concordati e delle relative modalità di esecuzione del lavoro autorizzate dal medico del lavoro, nonché delle eventuali fasce di reperibilità, il lavoratore ha diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche di lavoro senza che questo possa comportare, di per sé, effetti sulla prosecuzione del rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi». Al di là del lavoro agile, ritengo doveroso che un lavoratore non sia costretto a leggere continuamente i messaggi sul cellullare per essere pronto a rispondere a colleghi o superiori in qualsiasi momento della giornata o della settimana.

A maggior ragione ho trovato esagerato il numero di ore passato al telefono, in chat, in videoriunioni e sulle piattaforme digitali, durante quest’ultimo anno scolastico dalle/gli insegnanti.

La DAD non è necessariamente un male, anzi la trovo una grande opportunità per integrare e potenziare l’insegnamento in presenza ma non può costituire la norma.

Gia da settembre scorso, io avrei adottato un approccio diverso per il rientro a scuola e lo avrei mantenuto per tutto l’anno scolastico. La coperta, tra l’esigenza di considerare centrale l’importanza della scuola e della cultura in genere, ed il rischio di trasmissione del contagio nei gruppi classe, era troppo corta. Alla fine dell’estate scorsa, lo scontro tra i politici nazionali, quelli locali, le varie corporazioni lavorative tiravano questa coperta secondo le esigenze di categoria a di partito piuttosto che pensare ad un progetto razionale. Era stato subito chiaro che uno dei problemi della scuola non era la scuola in se stessa ma gli spostamenti per raggiungere le scuole e gli assembramenti all’esterno delle stesse.

Io avevo pensato ad una soluzione che, con le adeguate modifiche alle arcaiche normative in vigore, sarebbe stata utilizzabile a settembre e potrebbe ancora tornare utile per la ripartenza della didattica in presenza subito dopo le vacanze di Pasqua.

Innanzitutto è necessario fare le opportune distinzioni tra le varie tipologie di scuola poiché sono diverse le età di bambini/ragazzi/genitori interessati.

La scuola dell’infanzia (nido e materna) potrebbe essere riattivata senza alcuna limitazione poichè i protocolli anti-covid già presenti sono sufficienti a mantenere un elevato standard di sicurezza anche laddove vengano consumati i pasti. L’unica attenzione dovrebbe essere la sorveglianza ai cancelli per disperdere immediatamente i genitori che hanno le solite 4 parole da scambiarsi per la durata di lunghissimi quarti d’ora.

La scuola primaria, nella maggior parte dei casi, si trova in un raggio di distanza tale da poter essere raggiunta a piedi e quindi all’aria aperta, cosa che consentirebbe di incentivare le iniziative dei piedibus aumentando il numero di linee. I piedibus hanno lo svantaggio che funzionano solo grazie al volontariato di alcuni genitori ed associazioni e non ricevono alcun contributo pubblico o privato. Un pagamento seppur minimo agli accompagnatori dei piedibus potrebbe ridurre se non azzerare sia il traffico veicolare e sia la permanenza dei genitori davanti ai cancelli scolastici. In queste condizioni non ci sarebbe alcuna problematica ad effettuare l’orario scolastico completo anche per questa fascia d’età, mantenendo le attuali limitazioni alle attività laboratoriali.

La scuola secondaria di primo grado porta subito all’attenzione un gravissimo problema che è totalmente indipendente dalla pandemia. Nel nostro passato ci siamo autonomamente e volontariamente complicati la vita creando leggi masochistiche che, pur avendo l’intento di proteggere, arrecano sovente danni maggiori. L’articolo 591 del Codice penale stabilisce la pena della reclusione da 6 mesi a 5 anni per chi abbandona una persona con meno di 14 anni della quale abbia la custodia o debba prendersi cura. Questo vale anche per l’accompagnamento a scuola. I ragazzi delle medie (e del primo superiore) non potrebbero muoversi autonomamente all’interno del proprio quartiere, della propria città e non potrebbero prendere l’autobus o altri mezzi pubblici. Non solo per andare a scuola ma anche per andare a trovare gli amici, per giocare al parco, per frequentare le attività sportive e la parrocchia. Sappiamo tutti che in realtà già dalla 4^, 5^ elementare i ragazzini che abitano nei pressi della suola vanno spesso da soli, a piedi o in bicicletta, lasciando una grave responsabilità ad insegnanti e personale scolastico che hanno il divieto di farli uscire da scuola se non vedono i genitori o personale affidatario con delega. Questa premessa era d’obbligo perchè io proporrei la scuola in presenza solo per quegli alunni in grado di raggiungere autonomamente a piedi o in bicicletta la sede scolastica, servirebbe magari un patto con i genitori che confermino capacità e volontà dei figli di raggiungere la scuola in autonomia. Gli altri alunni dovrebbero obbligatoriamente usufruire del pulmino scolastico, servizio quest’ultimo che deve essere potenziato perchè altrimenti sarebbe necessario creare un’alternanza tra gruppi di alunni in presenza e in DAD. Dovrebbe essere vietato accompagnare i figli in auto.

La soluzione appena espressa presenta innumerevoli vantaggi sia sul piano scolastico perchè garantirebbe alti livelli di presenza, sia sul piano psicologico dei ragazzi perchè svilupperebbero con maggiore consapevolezza i propri processi di autonomia e sia per la riduzione di stress da parte dei genitori perché avrebbero meno problemi di gestione degli orari. Ultimo ma non trascurabile vantaggio, la riduzione di movimentazione di mezzi privati per il trasporto scolastico e quindi meno traffico e meno inquinamento.

La scuola secondaria di secondo grado ha ragazzi di età molto varie e con problematiche specifiche diverse tra loro. In zona rossa ed arancione proporrei la scuola in presenza solo per le classi prime che hanno la necessità di entrare in un nuovo modo di vivere la scuola ed i rapporti sociali tra coetanei e con gli adulti rappresentati dagli insegnanti e dall’altro personale scolastico. Devono maturare la capacità di movimento autonomo in raggi d’azione più ampi, spesso in città diverse dalle proprie e con la necessità di effettuare molti cambi di mezzi pubblici. Per motivazioni totalmente diverse e legate al momento dell’esame di maturità, trovo necessario che gli alunni delle classi quinte effettuino la didattica in presenza durante l’intero anno scolastico. Le rimanenti classi, potrebbero effettuare la didattica in presenza per due giorni la settimana. Chi gestisce l’orario scolastico dovrebbe fare in maniera tale che nei due giorni in presenza gli alunni incontrino il maggior numero dei propri insegnanti. Il vantaggio evidente è che l’impatto sul trasporto pubblico e sulla viabilità ordinaria verrebbe ridotto ai 3/5 di quello abituale e si eviterebbero i bus sovraffollati e gli ingorghi cittadini. Resta sempre necessario che la mobilità pubblica o alternativa, quali le piste e le strade ciclabili vengano notevolmente incrementate e sostenute pubblicamente.

L’Università di per se non avrebbe alcun problema a gestire le proprie attività in modalità mista tra presenza e DAD, con l’obbligo degli esami in presenza. Il problema vero dell’università è che c’è un indotto enorme che vive alle sue spalle, o meglio alle spalle degli studenti e dei loro genitori, che con la didattica a distanza ha vissuto e sta vivendo una crisi epocale. In questa analisi tralascio le problematiche per tutti i locali pubblici, cinema e teatri che senza la presenza giovanile hanno perso enormi possibilità di guadagno ma che hanno problematiche ben più ampie con i coprifuoco e le chiusure forzate. Mi riferisco al mondo degli affitti, poiché i proprietari si trovano nella necessità di fare dei contratti con periodi certi di occupazione ma gli studenti vogliono pagare solo i periodi di reale sfruttamento degli alloggi per cui si arriva ad uno stallo in cui gli alloggi restano vuoti e gli studenti non riescono a trovare locali idonei ad ospitarli per i periodi necessari a seguire le poche lezioni in presenza. L’aumento delle lezioni in presenza metterebbe più ordine anche in questo settore.

Concludo augurando a tutti noi che il periodo pandemico diventi presto un ricordo del passato. Non sono mai stato convinto che alla fine saremmo stati tutti migliori, come si diceva circa un anno fa, però potremmo diventare più consapevoli di cosa siano le difficoltà oggettive e diventare più tolleranti rispetto le contrarietà che incontreremo nelle nostre vite. Anche l’eccesso di retorica che si sente durante i telegiornali e nelle trasmissioni radiofoniche sulle presunte difficoltà cognitive e relazionali che avranno i nostri ragazzi a casua delle mancate relazioni con coetanei, dal mio punto di vista sono solo seghe mentali che ci facciamo noi adulti. I ragazzi sono veloci a superare qualsiasi tipo di problema in maniera più efficace di come faremmo noi.

G20

Ricordate il G8 di Genova? Vuol dire che non siete giovanissimi o che siete stati attratti dalla cronaca di ciò che avvenne a Genova, nelle strade, nelle piazze e purtroppo nella scuola Diaz e nella caserma Bolzaneto in quel famigerato luglio 2001.

Del motivo di tanta protesta e della sua dura repressione, non se ne ricorda quasi nessuno.

Il G8 era l’evoluzione del G7, un gruppo dei 7 paesi più industrializzati al mondo in cui i rappresentanti governativi, sin dal 1975 si riunivano in incontri definiti informali poiché non erano coinvolti direttamente i capi di Stato o di Governo ma erano limitati a concertazioni sulle politiche economiche. La crescita del ruolo di Mosca, ripresasi dalla durissima crisi seguita alla caduta del muro di Berlino, aveva convinto i G7 (Italia, Canada, Stati Uniti, Giappone, Germania Ovest, Francia e Gran Bretagna) a coinvolgere la Federazione Russa, divenendo di fatto il G8 dal 1998.

In tale contesto erano mutati anche i confini dei dialoghi tra Paesi coinvolgendo anche le sfere della politica e della sicurezza pur non creando un alter-ego del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Probabilmente, proprio l'allargamento degli orizzonti di dialogo e la presenza formale dei Capi di Stato ai summit estivi, avrà fatto temere che stesse per nascere una forma antidemocratica di governo del Mondo in mano a pochi grandi Stati o meglio ai loro Governanti, e questo ha prodotto nel 2001 la variopinta protesta sociale contro il G8, purtroppo sfociata nella cieca violenza da parte di gruppi estremisti internazionali e la dura reazione di frange violente della polizia.

Il velocissimo ritmo di crescita dei Paesi in via di sviluppo ha convinto il G8 ad allargare i propri orizzonti dando vita al G20 comprendente i seguenti Paesi: Arabia Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Corea del Sud, Francia, Germania, Giappone, India, Indonesia, Italia, Messico, Regno Unito, Russia, Stati Uniti, Sud Africa, Turchia e Unione Europea che si riunisce dal 1999 a livello di ministri dell’Economia e rappresentanti delle banche centrali ma che dal 2008 ha elevato il proprio ruolo coinvolgendo i Capi di Stato e di Governo.

Non sono poche le critiche sulla forte presenza del continente europeo a discapito di altri continenti tra cui l’Africa che risulta sotto-rappresentata

La presidenza viene assegnata a rotazione e quest’anno spetta all’Italia presiedere i lavori del G20 con una agenda di lavori concordata dalla cosiddetta Troika, composta dalla Presidenza in corso, Italia, da quella precedente, Arabia Saudita e da quella dell’anno successivo, Indonesia.

L’agenda per l’anno in corso prende in considerazione le tematiche della ripresa economica e sociale e del libero accesso alle cure, dopo la crisi pandemica ponendo il fuoco su Persone, Pianeta e Prosperità.

Il vertice conclusivo si terrà a Roma nei giorni 30 e 31 ottobre 2021. Mi auguro che le piccole beghe di quartiere tra i nostri politicanti non facciano sfumare la possibilità attuale di avere un Vertice presieduto da una figura di alto livello internazionale e spostino le loro affannose ricerche di gratificazioni personali, tramite il consenso popolare, al 2022.

Aggiornamenti sulla Carte dei Diritti fonadamentali dell’Unione Europea

L’ingresso della primavera ha risvegliato in me la spinta emotiva alla scrittura e quindi mi sono ricordato che avevo alcuni argomenti in sospeso, come se i mesi invernali me li avessero fatti mettere in letargo con l’assopimento dell’interesse. Ed ecco che sono pronto ad aggiornarvi.

Il fronte dei diritti fondamentali per me è un argomento doppiamente importante, per i diritti in se stessi che sono un indice di civilizzazione delle società e per la loro definizione all’interno della Carta Europea che è il frutto del lavoro congiunto dei rappresentanti delle nazioni che compongono la Comunità Europea. Ai miei occhi il lavoro plurale è da sempre la summa delle sensibilità di più persone; quando tali persone rappresentano popolazioni diverse che si ritrovano in indirizzi comuni di convivenza riguardo i diritti di ciascuna persona, il lavoro fatto diventa un patrimonio collettivo. La parte più difficile è quella di tramutare le parole della carta che potrebbero sembrare semplici elencazioni di principi, in mentalità comune. E qua finisce il lavoro dei politici ed inizia quello dei cittadini.

Vi lascio quindi raccomandandovi la rilettura del mio articolo sulla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea con gli aggiornamenti del 21/03 2021 provenienti, come al solito, dal sito de Lo Spiegone.

Statistiche e persone

Siamo persone e non numeri! – E’ quasi impossibilie che capitino queste cose, eppure a me, purtroppo, è successo! – Sognare di vincere la lotteria è da illusi.

Ho messo insieme alcune frasi fatte, che danno il comune modo di sentire rispetto ad eventi improbabili. Mi serve per iniziare a parlare dei casi statisticamente trascurabili, come anticipato nel mio articolo sulla vaccianzione. La cronaca di questi giorni, sempre legata alla vaccinazione contro il Coronavirus, rende ancora più appropriato quanto avevo già intenzione di comunicare.

Nel periodo estivo, mentre boccheggiamo camminando per le strade roventi, ci convinciamo che la temeratura dell’aria fosse sicuramente superiore ai 40° centigradi ed invece i bravi cronisti di radio e televisione ci spiegano con dovizia di particolari che erano solo 35° ma la temperatura percepita era superiore a quella reale per via dell’umidità. La stessa cosa avviene con la percezione dei casi statistici. Se l’evento crea preoccupazione, il dato statistico di 1 morto, su 1 milione di vaccinati, diventa inaccettabile. Se invece siamo abituati a vivere un evento come possibilità remota e frutto di fatalità, come attraversare la strada sulle strisce pedonali, lo facciamo tranquillamente tutti i giorni eppure il tasso di mortalità in Italia è di ben 8,8 su milione. Similarmente guidiamo l’auto che ha addirittura un tasso di mortalità per incidente di 36 su milione. Quindi anche con i casi statistici relativi a medicinale e vaccini, il rischio percepito è superiore a quello reale. Sia chiaro, non voglio dimostrare che il rischio della vaccinazione sia pari a zero. Il rischio zero è una chimera, non esiste.

Eppure tutti sappiamo che il corpo umano è una macchina molto evoluta, in continuo sviluppo, ma non perfetta e soprattuto l’umanità intera non è composta di esemplari tutti uguali. Ci sono piccolissime, impercettibili differenze tra uomo ed uomo che in condizioni di vita normale quasi non si notano. Anche i migliori hanno piccolissime anomalie o funzionamenti non standard di alcuni apparati. Non sempre sono difetti, saltuariamente ci sono cuori super che permettono prestazioni eccezionali agli atleti, riflessi molto reattivi, cervelli velocissimi nell’elaborazione dei dati e viste e olfatti da supereroi. Un farmaco, per quanto possa essere stato testato su un campione considerevole di persone, potrebbe avere effetti indesiderati per persone con caratteristiche particolari e ancora maggiori sono i rischi quando il soggetto utilizzatore del farmaco ha altre patologie, magari a lui sconosciute.

Come non esiste l’uomo perfetto non può esistere il farmaco perfetto, senza controindicazioni e con reazini identiche sull’intera umanità. La domanda che tutti si stanno facendo in questo periodo è relativa alla validità dei vaccini anti Covid data la velocità con la quale questi sono stati realizzati ed il poco tempo di test sui volontari umani. Viene il dubbio che la popolazione mondiale stia facendo da cavia per il proseguo degli esperimenti.

Dovrebbe tranquillizzare il fatto che su questa pandemia, lo sforzo di ricerca è stato portato avanti comunemente dagli scienziati di tutto il mondo sia per identificare meglio le caratteristiche del virus, e sia per arrivare velocemente a cure condivise e ai fatidici vaccini. Dopo la fase di studio, ogni azienda farmaceutica, spesso finanziata dagli Stati, ha proceduto con metodologie diverse e arrivando a vaccini totalmente diversi l’uno dall’altro. Si hanno infatti i vaccini a RNA messaggero, a subunità o a vettori. Non scendo nei dettagli delle tipologie di vaccini, dato che la mia non è una trattazione scientifica. Non taccio invece sul fatto che i vaccini avrebbero dovuto essere brevettati dagli stati e non dalle case farmaceutiche per ridurre il costo di approvvigionamento e produzione a vantaggio di tutte le popolazioni del mondo. Ma torniamo al nostro tema.

Dopo gli annunci delle performance del vaccino russo, lo Sputnik, che era accreditato del 98% di efficacia, la Pfizer ha modificato il suo primo valore di 88% portandolo al 94,5%. A confronto di questi vaccini, la dichiarazione di AstraZeneca di efficacia intorno al 70% appare risibile e già questo primo fatto getta una luce di scarsa affidabilità sul vaccino. L’opinione pubblica viene ulteriormente allarmata dall’eccessivo accento posto sull’argomento dai dibattiti televisivi e radiofonici. In questo contesto, la notizia di morti improvvise, successive alla somministrazione del vaccino AstraZeneca, ha creato immediatamente il panico.

Ora, ipotizzando che le 6 morti accertate in Europa, rispetto alle 6 milioni di dosi somministrate, siano direttamente correlate ad una reazione al vaccino AstraZeneca, questo valore rientrerebbe in quel dato statisticamente trascurabile di 1/1.000.000. I decessi per Coronavirus, a livello mondiale, sono 388 su milione, in Europa il tasso sale a ben 1142. A fronte di questi dati appare sempre più logico procedere comunque con il programma vaccinale.

Questa la teoria, però se sei uno dei familiari del singolo caso su milione, per te non è nè un numero e nemmeno un valore statistico, bensì una persona, un caro, un affetto. Davanti alla perdita di un affetto non esisterà mai giustificazione statistica che tenga.