Volare: Un sogno

Ci sono persone in grado di raccontare quotidianamente il sogno della notte precedente con dovizia di particolari e descrizioni dettagliate di volti, di espressioni, di sensazioni e interi scambi di battute. D’altro canto, ci sono anche persone incapaci di ricordare un sogno, qualcuno sostiene di non aver mai sognato.

In tutta questa situazione mi inserisco io che ricordo pochissimi sogni. Tra questi, uno fatto tanti anni fa, mi ritorna spesso in mente. Formidabile la sensazione di felicità che mi aveva pervaso al risveglio, la sorpresa per una scoperta incredibile, il desiderio di testare e mettere in pratica quanto avevo sperimentato nel sogno. Forse per questo, ricordavo e ricordo tuttora vividamente il sogno.

Per aiutarvi a vivere assieme a me quel sogno, devo raccontarvi alcuni antefatti che sono come chiavi che vi aiuteranno ad aprire le porte alle immagini e alle sensazioni del sogno.

Da bambino, andavo spesso a trascorrere il fine settimana con la famiglia a casa dei nonni materni.

La casa era a Carlentini, un paese in provincia di Siracusa, che è poggiato su una collina isolata a circa 30 chilometri di distanza da Catania, la città in cui abitavo. Il centro storico del paese è composto principalmente da palazzine residenziali, quasi tutte disposte su due-tre piani e affiancate tra di loro. Le facciate sono interrotte da vicoli strettissimi per l’accesso ai “ronchi”, piccoli cortili che avevano la funzione di dare l’accesso dal retro alle abitazioni e all’area dei garage che in passato erano state le stalle per asini e muli.

La casa dei nonni era per me un ambiente familiare e sinonimo di festa o vacanza poiché trascorrevo in quella casa le principali festività dell’anno e qualche settimana del periodo estivo. L’abitazione era dei primi anni del Novecento con una parte ristrutturata negli anni Quaranta, in piena Seconda guerra mondiale.

L’interno era incentrato sulla sala da pranzo, abbastanza capiente da contenere agevolmente un tavolo da dodici coperti. L’ampio soffitto a volta era del colore del cielo e prendeva luce dalla cucina confinante e da un lucernaio con finestra a due ante. Per me, che ero bambino, quella stanza sembrava immensa ed il soffitto ancora più alto di quanto non fosse realmente. er aprire gli scuri o le finestre del lucernario, si doveva ricorrere ad una grossa e lunga canna alla cui estremità mio nonno aveva legato un anello per armeggiare agevolmente con i pomelli dei tiretti del lucernaio. Quel lucernario era l’aria condizionata della casa: sfruttando il principio naturale dell’ascesa delle particelle più calde, rinfrescava tutte le stanze. Del resto, per Carlentini non era certo una novità, dato che lì era stata scoperta la cosiddetta casa del vento: prima testimonianza di aria condizionata poiché sfruttava esattamente lo stesso principio pur essendo stata costruita circa due millenni prima.

Una domenica estiva, il lucernaio della sala da pranzo dei nonni era aperto e da lì era entrato un rondinino. Il piccolo rondinino forse non aveva ancora imparato bene a volare oppure era leggermente ferito. Non riusciva a stendere bene le ali o le estendeva per poco tempo. Svolazzava in maniera disordinata, urtando ripetutamente lungo le celesti pareti della volta, alla ricerca di un’uscita. Ricordo le urla eccitate di noi bambini, felici di vedere il volatile e speranzosi che il nonno lo catturasse, mischiate alle urla spaventate di nonna, mamma e zie che volevano che il volatile uscisse subito oppure che fosse abbattuto a colpi di canna. Il nonno aveva invece rivestito la canna con un panno morbido ed aveva fatto poggiare il rondinino ormai esausto perché si riposasse e prendesse fiato. Accostata la canna in prossimità della finestra, il piccolo uccello si era sentito come rigenerato, aveva spiccato il volo, allargando le ali ed aveva planato descrivendo un ampio cerchio intorno al lampadario prima di dirigersi nuovamente verso l’apertura e ritornare a volare libero nel suo cielo azzurro.

La casa si trovava sulla strada di confine tra il paese e la zona delle campagne, o giardini, come si dice in Sicilia. Il vantaggio di trovarsi nella via di confine del paese era quello di poter vedere, dalla sommità della collina, la parte meridionale della pianura di Catania e il declivio del colle di Carlentini coltivato ad agrumeti, orti e frutteti vari, lavorati a terrazzamenti.

Lo spettacolo che si apriva ai miei occhi era meraviglioso: agrumeti sempreverdi che periodicamente si tingevano di arancio o di giallo limone, biondi campi di grano, bruni terreni incolti, marroni mandorleti e oliveti dai colori cangianti. Sullo sfondo il verde smeraldo del biviere di Lentini. L’impressione era quella di poter spingere lo sguardo all’infinito con l’illusione di riuscire a toccare quei luoghi lontanissimi.

La stessa sensazione provavo lungo il tragitto in auto da/per Catania. Lo sguardo si perdeva in un continuo variare di scena tra gli ordinati riquadri colorati dei terreni agricoli della pianura, con le varie tonalità di verde, giallo e marrone, come fossero colori sulla tavolozza di un pittore, il lungo serpentone azzurrognolo del fiume Simeto con le sponde invase da canneti svettanti con i loro ciuffi ambrati, per arrivare alla striscia di sabbia bionda, naturale confine tra la terra ed il mare con cangianti gradazioni di azzurro che si estendono facendo perdere lo sguardo nell’orizzonte.

Quando rientravamo dopo il tramonto, vedevo, dal lunotto posteriore dell’auto, il riflesso sul mare delle mille luci bianche intense di cui erano contornati serbatoi, silos, tubi, costruzioni e ciminiere. Sulle cime di queste ultime si elevavano sinistre fiamme arancioni che terminavano in un maleodorante fumo nero: erano le raffinerie di Priolo, tristemente famose per l’inquinamento e la devastazione di una bellissima area costiera. Procedendo verso nord venivo colpito dalle luci che illuminavano i viali della zona industriale catanese. Sembravano il ricamo, ad ampi riquadri, di un tappetino posto ai piedi della città. Catania era immersa in una luminosa nuvola colorata, sovrastata da nuvolette più piccole raccordate tra loro da stelle filanti: erano i paesi etnei uniti dalle illuminazioni stradali. Quando i paesi divenivano più radi, oltre una certa altezza, spariva ogni luce e si intuiva l’ingombrante presenza del fianco della montagna sulla cui sommità, a seconda del periodo, poteva vedersi il fiammante pennacchio rosso e lingue di fuoco discendere dalle fenditure eruttive dell’Etna.

Le luci, i colori dei campi, le ampie distese, il mare, l’Etna.

Volevo riempire lo sguardo di quelle immagini, gustare il ricordo dell’emozione che mi provocavano e trovare parole che potessero aiutarmi a descriverle. Alternanza tra natura incontaminata, natura trasformata dall’uomo, insediamenti umani, la forza dell’Etna e l’immenso mare.

Immaginavo di riuscire ad abbracciare tutti quei panorami con un unico sguardo, dall’alto. Lentamente nasceva e cresceva in me il desiderio di volare, conservato fino al momento della scelta della scuola superiore.

Mi ero infatti iscritto all’Istituto Tecnico Aeronautico Statale di Catania “A. Ferrarin” dove, finalmente, riuscivo a soddisfare il mio desiderio del volo. Ero estasiato dalla bellezza del volo e per essere riuscito a concretizzare quel desiderio che mi ardeva in petto sin da bambino.

Per una serie di fattori contingenti, dopo il periodo scolastico non ho più volato.

Ho ripensato spesso alla possibilità di volare, ma non dovendo volare per mestiere, mantenere un brevetto di volo vuol dire solo sostenere enormi spese. A malincuore, avevo scelto di percorrere altre strade.

Diventato adulto, sposato, con tre figli, con un buon lavoro, pensavo di non aver più bisogno d’altro. La mia vita scorreva nella sua ordinarietà. I ritmi sempre veloci imposti dagli impegni dei figli, le normali discussioni con la moglie e qualche imprevisto lungo la strada erano quasi necessari per mettere il giusto pepe nella vita regolare.

Ero riuscito pure a trovare tempo e modo per impegnarmi in varie attività di volontariato. Ero contento e proteso a fare sempre meglio in ogni settore per sentirmi utile in famiglia e nella società. Come si dice? Quando c’è la salute, il lavoro, la pace in famiglia, hai tutto. Cos’altro ti serve? Fondamentalmente io mi sentivo arrivato, realizzato!

È in questa situazione che è intervenuto il sogno.

Una mattina vengo svegliato da una forte eccitazione, dalla gioia di aver scoperto un grande segreto. Non sto più nella pelle, racconto a Nadia, mia moglie, il sogno:

Mi trovavo in una grande stanza, aggrappato con le mani allo stipite della finestra. Mi facevano male i polpastrelli e stavo perdendo le forze, non sarei riuscito a rimanere aggrappato a lungo. Guardavo dall’alto il pavimento che sembrava distantissimo, sentivo le vertigini e la paura di cadere. Volevo raggiungere il suolo ma non sapevo come fare perché non c’erano altri appigli lungo la grande parte di colore azzurro mentre vedevo l’abisso del vuoto ai miei piedi. Non c’era nessuno a cui chiedere aiuto. Il tempo trascorreva e la stanchezza aumentava così che alla fine mi ero deciso: con un salto avevo lasciato il mio unico punto di sicurezza pensando a come attutire la caduta. Invece, istintivamente avevo allargato le braccia e, con immensa sorpresa, iniziavo a planare. Prima lungo il perimetro della stanza perdendo poco alla volta quota e poi, battendo velocemente in su e in giù le braccia aperte con i gomiti piegati all’esterno, ero riuscito a riguadagnare altezza. Acquistando nuova sicurezza mi ero avventurato verso il centro di questa enorme stanza. La mia sorpresa non era quella di riuscire a volare ma quella di non essere riuscito prima a scoprire quanto fosse semplice farlo. Bastava staccarsi. Staccarsi dalle false sicurezze, Staccarsi dalla routine. Staccarsi dalle decisioni di altri e decidere con determinazione che dovevi muoverti, ripetere quel movimento, con forza e soprattutto con gioia. La felicità era tanta. Non mi era più sufficiente mettermi in salvo all’interno della stanza, dovevo esplorare il mondo esterno. Uscito dalla finestra, avevo planato gustando la frescura dell’aria che mi scorreva attorno e mi scompigliava i capelli, tirando la pelle della faccia. Che sensazione! Scendevo giù in picchiata con le braccia aderenti al corpo fino quasi a sfiorare le punte degli alberi. Allora tiravo su la testa e allargavo le braccia ritornando ad agitarle velocemente, con forza e riconquistando quota. Andavo su, sempre più su e perdevo costantemente velocità fino a sentire sul corpo le vibrazioni dello stallo ed allora mi rituffavo a testa in giù per cercare un campo di grano o un branco di cavalli da sorvolare. Pian piano mi rendevo conto che non potevo ripetere all’infinito quelle manovre. Le braccia mi facevano male, sentivo i muscoli pulsare impazziti, poiché in effetti avevo solo una piccola parte alata e quindi le mie braccia-ali erano insufficienti a tenermi in volo per lunghi tratti. Potevo solo planare e fare piccoli tratti in volo vero e proprio. Un pizzico di delusione mi aveva colto ma immediatamente accantonata perché in ogni caso volavo!

So che dovrei chiedere a dei professionisti però mi piace azzardare alcune interpretazioni del sogno.

Come si intuisce dalla corposa premessa, c’è un richiamo a scene vissute da bambino e totalmente parcheggiate in aree remote della mia mente che sono andate a sovrapporsi al desiderio del volo, mai sopito, dopo il periodo scolastico.

Entrambe le sensazioni sono l’allegoria di una spinta alla ricerca di qualcosa di nuovo, del non volermi accontentare della tranquillità raggiunta ma farmi mettere in gioco da una sana inquietudine, per tendere sempre al nuovo, alla ricerca del mio limite e non accontentarmi dei primi traguardi raggiunti.

Non so se sia casuale ma è proprio in quel periodo che inizia la mia avventura col rugby attività ludica ma con sfaccettature molto serie sia dal punto di vista organizzativo e sia dal punto di vista della ricerca del proprio limite personale fisico e mentale. Mi rendo, inoltre, disponibile per nuovi incarichi lavorativi in Italia e all’estero, inizio nuove collaborazioni di volontariato ed infine inizio a mettere nero su bianco i miei pensieri e le mie sensazioni per spiegare prima a me e poi agli altri cosa mi spinge nelle scelte e nella ricerca personale del senso della mia vita.

Forse non sono fatto per il volo e allora penso: “La struttura alare del Calabrone, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso (cit. A. Einstein)”.

Mi presento

Mi chiamo Maurizio, ho 54 anni e sono nato in una clinica che si affaccia direttamente su uno degli angoli più belli della scogliera catanese.

Mare, vento e temperature estive sono gli elementi che mi hanno dato il benvenuto e modificato il mio modo di essere e di pensare. L’idea del viaggio, del volo e dell’estate hanno accompagnato tutta la mia vita.

Francamente speravo di viaggiare molto di più di quanto abbia realmente fatto però mi sento sempre con la valigia in mano e pronto a partire per affrontare qualsiasi nuova avventura. Di fatto mi sono sempre sentito cittadino del mondo.

Da ragazzo ho inseguito il desiderio del volo sognando di riuscire ad innalzarmi per vedere dall’alto la mia città con le sue strade nere che si intersecano e fanno da confine a file di alti palazzi dai tetti colorati, la pianura catanese con le forme regolari dei campi agricoli con varie tonalità di verde o marrone del terreno argilloso, la spiaggia dorata che separa la terra dal mare azzurro con lo sguardo verso la maestosità dell’Etna.

Il desiderio del volo si è concretizzato frequentando l’ITAer “A. Ferrarin” che mi ha consentito di volare durante il corso di pilotaggio. Alla scuola devo anche l’incontro con il mondo del mare. Un corso di vela mi ha consentito di fare alcune esperienze da marinaio amplificando il desiderio del viaggio. Non vacanza ma viaggio. Io viaggerei sempre, non importa dove e per fare cosa ma viaggerei.

Le esigenze della vita hanno scelto per me un’esistenza abbastanza stanziale però la ricchezza delle esperienze fatte e la libertà che solo la fantasia può regalare sono stati gli ingredienti che mi hanno consentito di continuare a viaggiare con la mente e immaginare avventure ogni giorno diverse.

La voglia di condividere le mie avventure sono uno dei motivi per cui ho deciso di prendere carta e penna, o meglio mouse e tastiera, per descrivere a quante più persone i miei viaggi immaginari e condividere le mie emozioni.

Perché scrivo su un blog?

  • Il blog mi serve per fermare alcuni spunti tratti dai miei viaggi immaginari che potrebbero diventare storie più articolate e addirittura trasformarsi in libri.
  • Per sentire le opinioni dei miei lettori e comprendere cosa veramente piace loro di quello che scrivo.
  • Per parlare delle mie idee di società, socialità e progresso (in una parola si potrebbe dire politica però a me non piace perché spesso travisata in competizione mentre io la intendo come servizio al popolo)
  • Mi piacerebbe avere con i miei lettori degli scambi di opinioni, franchi e sereni anche nella totale contrapposizione ideologica.

In passato, ho avuto una pagina privata ma senza lo stimolo di dover consegnare con puntualità idee al pubblico, perdo lo slancio e smetto di scrivere. Il blog pubblico mi costringe ad essere più regolare.

Gli argomenti saranno i più disparati e partiranno da mie osservazioni sulla quotidianità più alcune pennellate per descrivere nuovi personaggi per le mie storie e tracce di nuove avventure da raccontare.

Mi piacerebbe connettermi con persone curiose e capaci di dialogare in maniera franca ma priva di toni aspri. So che la vita non è sempre dolce ma credo che si possa evitare di renderla amara quando non è necessario.

Lo scopo finale è quello di raggiungere una discreta visibilità attraverso il blog per fare da volano, assieme alle mie pagine social, ai libri che intendo completare e pubblicare a breve.