Zona rossa e Didattica a Distanza

Mantenere sempre l’attenzione sul Coronavirus, stanca anche i lettori più agguerriti e soprattutto contribuisce ad aumentare la sensazione di stress da oppressione per l’oggettiva riduzione degli spazi di libertà personale e per la sensazione di rischio permanente.

Non voglio entrare nei meandri delle discussioni filosofiche e politiche sulla correttezza o meno delle soluzioni proposte dai vari Stati che hanno individuato nella riduzione degli spostamenti delle persone, nella chiusura delle attività commerciali e sociali e nel distanziamento di sicurezza, le armi migliori per rallentare la diffusione del virus. Gli argomenti che mi interessa mettere a fuoco riguardano la situazione italiana e sono: 1) la chiusura dell’attività scolastica in presenza in ogni ordine e grado di istruzione nelle cosiddette zone rosse; 2) il diritto alla disconnessione.

Quando dal pomeriggio di venerdì 12 marzo 2021, girava la voce che anche la regione Veneto sarebbe passata in zona rossa dal lunedì successivo, nelle case della maggior parte degli insegnanti sono iniziate le riunioni con i vari sistemi di videochiamata, compreso l’utilizzo delle stesse piattaforme scolastiche. All’inizio erano solo chiamate per mettersi d’accordo su cosa e come strutturare l’eventuale lavoro con gli alunni, dal lunedì. Le linee di indirizzo di Dirigenti e Presidi erano perlopiù nebulose anche se preparate con largo anticipo, per cui gli obiettivi principali erano quelli di vedere cosa, praticamente, si sarebbe potuto fare. Gli insegnanti più vicini ai gruppi dirigenti cercavano di ricevere le prime istruzioni ufficiose. Immagino anche i presidi che avranno sicuramente avuto un intenso scambio di informazioni, tra di loro e con gli uffici scolastici regionali, per uniformare i comportamenti e massimizzare i frutti del lavoro degli insegnati.

Già dal giorno successivo le riunioni virtuali erano diventate più frequenti ed intense occupando quasi l’intera giornata del sabato fino a tarda sera. Io, marito di una maestra, con i miei familiari facciamo da spettatori e non riusciamo ad entrare nel merito delle tante riunioni ma, personalmente, ho colto che c’erano problemi sulla disponibilità delle piattaforme, sul numero di ore massime che si potevano fare in didattica sincrona (in diretta insegnati e alunni contemporaneamente presenti) e asincrona (lezione registrata dall’insegnate, caricata sulla piattaforma informatica e fruita dagli alunni quando ritenuto opportuno), sulle modalità di assistenza agli alunni con difficoltà da quelle meno impattanti a quelle di maggiore disagio, sulla sicurezza informatica e la tutela della privacy per i ragazzi e per gli insegnati. Particolarmente spinoso, l’argomento dell’utilizzo di software di larga diffusione ma non strettamente dedicati alla didattica, per evitare la saturazione delle piattaforme nate per un utilizzo di supporto agli insegnanti sia per la registrazione e rendicontazione dell’attività scolastica e sia per i rapporti con i genitori. Non era prevista la mole di ore di registrazione e di attività on-line per l’insegnamento per le quali sono risultate sottodimensionate, nel numero di accessi, nella larghezza di banda e nei tempi di risposta, rispetto alla reale necessità di utilizzo in caso di DAD.

Non ho seguito tutte le riunioni del venerdì, sabato e domenica che si sono ripetute con interlocutori spesso diversi in cui gli argomenti venivano ripetuti perchè andavano ad affinarsi gli scenari verso cui la scuola stava andando incontro ma l’impressione che ho avuto è stata quella di un gruppo di insegnanti che avvertivano la gravità del lavoro che avrebbero dovuto affrontare e che non volevano farsi trovare impreparati. Sarà amor proprio, sarà attaccamento al dovere, sarà l’interesse nel futuro dei bambini che sono affidati a loro, fatto sta che le ore di lavoro sviluppate e non riconosciute, in questa situazione emergenziale sono state veramente tante. Se da un lato trovo giustificabile spingere sull’acceleratore per superare un ostacolo imprevisto, non si può pensare che l’efficienza dell’apparato scolastico, così come di quello sanitario, possa durare a lungo quando da oltre un anno i ritmi lavorativi sono di molto superiori a quelli normali, senza pause e, tra l’altro, senza alcuna corrispondenza dal punto di vista retributivo. Di fatto la maggior parte delle ore di lavoro possono tranquillamente essere considerate attività di volontariato che non verrà mai riconosciuto e trascritto nemmeno a livello curricolare (importante per gli insegnanti non di ruolo e per quelli che aspirano a trasferire la sede di insegnamento).

Da anni mi batto per il diritto alla disconnessione, cioè per il diritto alla separazione netta tra quella che è l’attività lavorativa con tutto il suo carico di pensieri e attività da svolgere e l’attività familiare o di svago in cui il lavoro non dovrebbe entrare se non in casi di reale urgenza. L’unico riferimento normativo, in Italia, è la legge 81/2017 sul lavoro agile che prevede espressamente che: «nel rispetto degli obiettivi concordati e delle relative modalità di esecuzione del lavoro autorizzate dal medico del lavoro, nonché delle eventuali fasce di reperibilità, il lavoratore ha diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche di lavoro senza che questo possa comportare, di per sé, effetti sulla prosecuzione del rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi». Al di là del lavoro agile, ritengo doveroso che un lavoratore non sia costretto a leggere continuamente i messaggi sul cellullare per essere pronto a rispondere a colleghi o superiori in qualsiasi momento della giornata o della settimana.

A maggior ragione ho trovato esagerato il numero di ore passato al telefono, in chat, in videoriunioni e sulle piattaforme digitali, durante quest’ultimo anno scolastico dalle/gli insegnanti.

La DAD non è necessariamente un male, anzi la trovo una grande opportunità per integrare e potenziare l’insegnamento in presenza ma non può costituire la norma.

Gia da settembre scorso, io avrei adottato un approccio diverso per il rientro a scuola e lo avrei mantenuto per tutto l’anno scolastico. La coperta, tra l’esigenza di considerare centrale l’importanza della scuola e della cultura in genere, ed il rischio di trasmissione del contagio nei gruppi classe, era troppo corta. Alla fine dell’estate scorsa, lo scontro tra i politici nazionali, quelli locali, le varie corporazioni lavorative tiravano questa coperta secondo le esigenze di categoria a di partito piuttosto che pensare ad un progetto razionale. Era stato subito chiaro che uno dei problemi della scuola non era la scuola in se stessa ma gli spostamenti per raggiungere le scuole e gli assembramenti all’esterno delle stesse.

Io avevo pensato ad una soluzione che, con le adeguate modifiche alle arcaiche normative in vigore, sarebbe stata utilizzabile a settembre e potrebbe ancora tornare utile per la ripartenza della didattica in presenza subito dopo le vacanze di Pasqua.

Innanzitutto è necessario fare le opportune distinzioni tra le varie tipologie di scuola poiché sono diverse le età di bambini/ragazzi/genitori interessati.

La scuola dell’infanzia (nido e materna) potrebbe essere riattivata senza alcuna limitazione poichè i protocolli anti-covid già presenti sono sufficienti a mantenere un elevato standard di sicurezza anche laddove vengano consumati i pasti. L’unica attenzione dovrebbe essere la sorveglianza ai cancelli per disperdere immediatamente i genitori che hanno le solite 4 parole da scambiarsi per la durata di lunghissimi quarti d’ora.

La scuola primaria, nella maggior parte dei casi, si trova in un raggio di distanza tale da poter essere raggiunta a piedi e quindi all’aria aperta, cosa che consentirebbe di incentivare le iniziative dei piedibus aumentando il numero di linee. I piedibus hanno lo svantaggio che funzionano solo grazie al volontariato di alcuni genitori ed associazioni e non ricevono alcun contributo pubblico o privato. Un pagamento seppur minimo agli accompagnatori dei piedibus potrebbe ridurre se non azzerare sia il traffico veicolare e sia la permanenza dei genitori davanti ai cancelli scolastici. In queste condizioni non ci sarebbe alcuna problematica ad effettuare l’orario scolastico completo anche per questa fascia d’età, mantenendo le attuali limitazioni alle attività laboratoriali.

La scuola secondaria di primo grado porta subito all’attenzione un gravissimo problema che è totalmente indipendente dalla pandemia. Nel nostro passato ci siamo autonomamente e volontariamente complicati la vita creando leggi masochistiche che, pur avendo l’intento di proteggere, arrecano sovente danni maggiori. L’articolo 591 del Codice penale stabilisce la pena della reclusione da 6 mesi a 5 anni per chi abbandona una persona con meno di 14 anni della quale abbia la custodia o debba prendersi cura. Questo vale anche per l’accompagnamento a scuola. I ragazzi delle medie (e del primo superiore) non potrebbero muoversi autonomamente all’interno del proprio quartiere, della propria città e non potrebbero prendere l’autobus o altri mezzi pubblici. Non solo per andare a scuola ma anche per andare a trovare gli amici, per giocare al parco, per frequentare le attività sportive e la parrocchia. Sappiamo tutti che in realtà già dalla 4^, 5^ elementare i ragazzini che abitano nei pressi della suola vanno spesso da soli, a piedi o in bicicletta, lasciando una grave responsabilità ad insegnanti e personale scolastico che hanno il divieto di farli uscire da scuola se non vedono i genitori o personale affidatario con delega. Questa premessa era d’obbligo perchè io proporrei la scuola in presenza solo per quegli alunni in grado di raggiungere autonomamente a piedi o in bicicletta la sede scolastica, servirebbe magari un patto con i genitori che confermino capacità e volontà dei figli di raggiungere la scuola in autonomia. Gli altri alunni dovrebbero obbligatoriamente usufruire del pulmino scolastico, servizio quest’ultimo che deve essere potenziato perchè altrimenti sarebbe necessario creare un’alternanza tra gruppi di alunni in presenza e in DAD. Dovrebbe essere vietato accompagnare i figli in auto.

La soluzione appena espressa presenta innumerevoli vantaggi sia sul piano scolastico perchè garantirebbe alti livelli di presenza, sia sul piano psicologico dei ragazzi perchè svilupperebbero con maggiore consapevolezza i propri processi di autonomia e sia per la riduzione di stress da parte dei genitori perché avrebbero meno problemi di gestione degli orari. Ultimo ma non trascurabile vantaggio, la riduzione di movimentazione di mezzi privati per il trasporto scolastico e quindi meno traffico e meno inquinamento.

La scuola secondaria di secondo grado ha ragazzi di età molto varie e con problematiche specifiche diverse tra loro. In zona rossa ed arancione proporrei la scuola in presenza solo per le classi prime che hanno la necessità di entrare in un nuovo modo di vivere la scuola ed i rapporti sociali tra coetanei e con gli adulti rappresentati dagli insegnanti e dall’altro personale scolastico. Devono maturare la capacità di movimento autonomo in raggi d’azione più ampi, spesso in città diverse dalle proprie e con la necessità di effettuare molti cambi di mezzi pubblici. Per motivazioni totalmente diverse e legate al momento dell’esame di maturità, trovo necessario che gli alunni delle classi quinte effettuino la didattica in presenza durante l’intero anno scolastico. Le rimanenti classi, potrebbero effettuare la didattica in presenza per due giorni la settimana. Chi gestisce l’orario scolastico dovrebbe fare in maniera tale che nei due giorni in presenza gli alunni incontrino il maggior numero dei propri insegnanti. Il vantaggio evidente è che l’impatto sul trasporto pubblico e sulla viabilità ordinaria verrebbe ridotto ai 3/5 di quello abituale e si eviterebbero i bus sovraffollati e gli ingorghi cittadini. Resta sempre necessario che la mobilità pubblica o alternativa, quali le piste e le strade ciclabili vengano notevolmente incrementate e sostenute pubblicamente.

L’Università di per se non avrebbe alcun problema a gestire le proprie attività in modalità mista tra presenza e DAD, con l’obbligo degli esami in presenza. Il problema vero dell’università è che c’è un indotto enorme che vive alle sue spalle, o meglio alle spalle degli studenti e dei loro genitori, che con la didattica a distanza ha vissuto e sta vivendo una crisi epocale. In questa analisi tralascio le problematiche per tutti i locali pubblici, cinema e teatri che senza la presenza giovanile hanno perso enormi possibilità di guadagno ma che hanno problematiche ben più ampie con i coprifuoco e le chiusure forzate. Mi riferisco al mondo degli affitti, poiché i proprietari si trovano nella necessità di fare dei contratti con periodi certi di occupazione ma gli studenti vogliono pagare solo i periodi di reale sfruttamento degli alloggi per cui si arriva ad uno stallo in cui gli alloggi restano vuoti e gli studenti non riescono a trovare locali idonei ad ospitarli per i periodi necessari a seguire le poche lezioni in presenza. L’aumento delle lezioni in presenza metterebbe più ordine anche in questo settore.

Concludo augurando a tutti noi che il periodo pandemico diventi presto un ricordo del passato. Non sono mai stato convinto che alla fine saremmo stati tutti migliori, come si diceva circa un anno fa, però potremmo diventare più consapevoli di cosa siano le difficoltà oggettive e diventare più tolleranti rispetto le contrarietà che incontreremo nelle nostre vite. Anche l’eccesso di retorica che si sente durante i telegiornali e nelle trasmissioni radiofoniche sulle presunte difficoltà cognitive e relazionali che avranno i nostri ragazzi a casua delle mancate relazioni con coetanei, dal mio punto di vista sono solo seghe mentali che ci facciamo noi adulti. I ragazzi sono veloci a superare qualsiasi tipo di problema in maniera più efficace di come faremmo noi.

Come riaprire le scuole in (relativa) sicurezza — OggiScienza

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